da Roma
Fausto Bertinotti? Un «coraggioso», spiega Antonio Polito. Per lex direttore del Riformista, oggi senatore del Pd (e tra i promotori del celebre «manifesto dei coraggiosi» dimpronta rutelliana), il presidente della Camera ha «fatto bene a dire chiaramente a Prodi di non mettere il governo e la maggioranza di traverso sulla strada delle riforme».
Perché avrebbe fatto bene, senatore Polito?
«Perché fanno bene tutti quei coraggiosi che non si lasciano frenare e intimidire nel percorrere la strada verso quella che io chiamo la Terza Repubblica, ossia verso un cambio radicale del sistema politico che lo renda meno frammentato e più corrispondente alla realtà e alle necessità del Paese. E tra i coraggiosi annovero anche Walter Veltroni e Silvio Berlusconi, con il suo Pdl fondato dalla Mercedes».
Sembra che Prodi abbia ascoltato lavvertimento di Bertinotti: dà il «benevenuto» a qualsiasi legge elettorale, dice che il governo non parteciperà direttamente al dibattito.
«Il governo fa bene a non mettersi di mezzo: quello della riforma elettorale non è lavoro suo, e se vuole evitare eventuali danni collaterali è meglio che ne stia fuori».
Dunque anche lei è contrario a un vertice di maggioranza sulla legge elettorale?
«Francamente non vedo che senso tecnico possa avere quel vertice. Nel programma dellUnione sta scritto che le riforme si fanno con lo schieramento più largo possibile. Sono unoperazione tutta parlamentare, e non si vede perché ci debba essere una posizione di governo o di opposizione. Oltretutto, questa maggioranza che ogni tanto pretende di esistere e dire la sua è talmente piccola e divisa che anche volendo non potrebbe far nulla a colpi di maggioranza».
Ma secondo lei i piccoli partiti che rischiano di essere spazzati via non hanno diritto di difendersi?
«No: i partitini nati in Parlamento senza passare per alcun voto popolare, come quello di Dini o di Storace, non sono partiti e dunque non hanno alcun diritto. Gli altri devono scegliere se unirsi o perire: non si può continuare a pretendere di contare senza avere i voti. Quindi, se Di Pietro, Mastella, Dini e la madonna si ritengono di centro facessero ununica formazione centrista. E Diliberto, Pecoraro & Co. ne facessero una di sinistra».
Però anche il Partito democratico è diviso sulla legge elettorale: DAlema e Rutelli vogliono il tedesco, Veltroni lo spagnolo, Parisi il referendum...
«La divisione reale nel Pd è tra chi vuole mantenere il premio di maggioranza, che porta a coalizioni coatte e chi lo vuole abolire. Ossia tra i prodiani e gli altri. Poi ci sono differenze tra filo-tedeschi e filo-spagnoli: io per esempio trovo che il sistema tedesco sia quello più adatto, ma penso che con lo spagnolo si ottengano gli stessi risultati, sia pure in modo più brutale. In realtà sono divisioni che dipendono soprattutto da chi si preferisce come alleato, in prospettiva: se preferisci Casini sei per il tedesco, se guardi a Berlusconi sei ispanico... Ma il conflitto vero resta quello con i referendari».
Paradossalmente, oggi Veltroni è il principale avversario del referendum. Perché?
«Per una logica evidente: il risultato del referendum sarebbe laborto del Pd, che non potrebbe neppure comparire sulla scheda elettorale. È evidente che oggi Veltroni sia nemico di quella prospettiva, perchè è il segretario di quel Pd e lo vuole costruire su una vocazione maggioritaria. Con le regole che scaturirebbero da quel quesito, che dà il premio di maggioranza alla lista più votata, quella sua idea verrebbe travolta, e gli toccherebbe tornare a imbarcare tutti i vecchi alleati dellUnione».
Resta però una divisione profonda su come farlo, quel Partito democratico.
«I due vecchi partiti fondatori, Ds e Margherita, reclamano tessere, nomenklatura, congressi per continuare a contare. Veltroni invece vuole un partito nuovo e diverso, che non si basi sugli apparati ma sul rapporto con gli elettori. Io sono daccordo con lui e con Bettini, e credo che il leader debba essere libero dai vincoli di apparato.
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