La breve primavera della «colomba» Krusciov

La crisi degli intellettuali dopo il rapporto segreto. «Se è falso, è un incubo. Se è vero, è un incubo», disse Garaudy. Chi preferì non crederci, chi sperò in una svolta...

La breve primavera della «colomba» Krusciov

«Se è falso, è un incubo. Se è vero, è un incubo... ». La voce incredula del giornalista dell’Humanité tradì lo sgomento che si diffuse alle prime notizie filtrate dal Cremlino sulle rivelazioni del XX Congresso del Pcus. Ironia della sorte: quel giornalista era Roger Garaudy, astro emergente del Pcf, che intorno al maggio ’68 sarebbe stato espulso per eresia gauchista. Ma allora Garaudy fotografò perfettamente il dramma del popolo comunista. Se il rapporto era vero, crollava non solo il mito di Stalin ma l’impalcatura morale che aveva retto trent’anni di storia dell’Urss e di costruzione del socialismo. Molto meglio che fosse falso.
Nei quartieri popolari di Roma, anche un brillante latinista divenuto attacchino volontario lo sperava fino al punto di sperare che Krusciov venisse smascherato come agente della Cia. Quando si accorse che il leader sovietico era tutto ma non quello, ne trasse le conseguenze. Lasciò la grande madre castratrice del partito per tornare al libero pensiero. Ne ha parlato in pagine molto intense che i nostri lettori già conoscono. Si chiama Luca Canali.
I dirigenti comunisti a Est come a Ovest furono gli unici a non porsi il dilemma che lacerò milioni di militanti. Per forza: sapevano bene che il rapporto era non solo vero, ma semmai largamente incompleto. Krusciov, complice e ora successore di Stalin, dopo l’eliminazione di Beria e l’interregno di Malenkov, aveva appena cominciato a vuotare il sacco. Ma selettivamente, perché in fondo al sacco, a sguazzare nel terrore e nelle purghe, c’era stato anche lui. Rivelatore un aneddoto forse apocrifo fra i tanti che circolarono su quella seduta a porte chiuse del Gran Consiglio bolscevico, il 24 febbraio 1956 che segnò l’inizio della fine (anche se lontana) per il blocco comunista. Mentre Krusciov di fronte ai soli delegati sovietici srotolava le sue cartelle, gli pervenne un biglietto anonimo: «Perché non hai parlato prima?». E lui, interrompendo la lettura: «Compagni, perché me la facevo addosso». Pausa: «Come tutti voi». Secondo Giuseppe Boffa, meticoloso corrispondente dell’Unità, il primo segnale del cambiamento fu l’annuncio che Togliatti, quel giorno, avrebbe tenuto un comizio in una «officina automobilistica della capitale». I moscoviti non la conoscevano, poi capirono. Fino alla vigilia era l’officina Stalin.
Ma che cosa era veramente successo? Il Congresso fu inaugurato il 14 febbraio nel consueto tripudio di inni e stendardi. Il primo attacco al «culto della personalità» di Stalin, espressione poi divenuta proverbiale, fu lanciato dall’armeno Mikoyan, altro vecchio compagno di merende del defunto dittatore. Mikoyan si era già schierato con la svolta kruscioviana contro il gruppetto delle vedove inconsolabili, ormai condannate al rigor mortis politico se non fisico (camperanno fin quasi centenari... ): Molotov, Kaganovic e altri minori. I lavori proseguirono poi senza registrare particolari impennate sino al gran finale. E lì scoppiò la bomba.
A leggere le memorie di Krusciov si ha l’impressione che non si rendesse conto delle enormi conseguenze che il suo gesto avrebbe provocato. Come sempre quando il peso della storia diventa insopportabile, si cerca di riscriverla in bianco e nero, per rassicurare le anime candide. Il leader sovietico non era solo il contadino scarpe grosse e cervello fino che il mondo si apprestava a conoscere. Un fondo di umanità autentica e anche di pentimento, nell’uomo c’era. Ma era cresciuto nell’apparato, abituato a studiare cautamente ogni mossa per non rimetterci il collo. Possibile che si fosse lasciato andare così? Bastava attribuire a Stalin, Beria e compagnia tutte le malefatte del regime, pudicamente definite «violazioni della legalità socialista», per tornare, come se nulla fosse, a una mitica «eredità di Lenin», altro slogan messo in voga allora? Le immani sofferenze di un popolo meraviglioso e generoso potevano risolversi a tarallucci e vodka, eto buylo shutka, abbiamo scherzato?
Se lo credeva lui, non lo credevano certo i dirigenti dei Paesi e partiti «fratelli», dal tedesco-orientale Ulbricht al francese Thorez, dall’ungherese Rákosi a Togliatti. «Il Migliore», era tra i pochissimi ad aver già letto il rapporto, sia pure con preavviso minimo e sotto guardia armata, data la fiducia di cui godeva al Cremlino sin dagli anni bui del Comintern. Tutti costoro non rimpiangevano necessariamente Stalin ma sapevano, con lucidità pari al cinismo, che il sistema non era più riformabile. Liberalizzarlo, sia pure dall’alto, era non solo controproducente ma impossibile. Il seguito mostrò che avevano ragione.
Nacque da lì il tentativo paradossale di bloccare la diffusione tra i comunisti occidentali di quel che a Mosca già circolava a macchia d’olio. Il risultato fu di aggiungere beffa al danno. Stralci del rapporto erano filtrati quasi subito alle agenzie di stampa occidentali probabilmente dai servizi sovietici, su ordine dello stesso Krusciov. Il testo completo venne pubblicato dal Dipartimento di Stato il 4 giugno e in Italia, dal Punto, la piccola e coraggiosa rivista d’area liberale diretta da Vittorio Calef, mentre i russi dovranno attendere la perestrojka gorbacioviana per leggerlo nel 1989. La stampa comunista, invece, annaspava non sapendo, è il caso di dirlo, a che compagno votarsi. Rossana Rossanda ricorda che a Milano volarono parole grosse tra i giovani che ponevano l’alternativa «o smentire, o pubblicare» e i vertici, che si ostinavano a parlare di bieca campagna controrivoluzionaria. Ancora vent’anni dopo il rancore era tale che il super-celodurista Pietro Secchia omise di menzionare il rapporto e persino il nome di Krusciov nei suoi ricordi.
Cominciò a incrinarsi la statua del dittatore georgiano, idolatrato da vivo e ancora dopo morto in forme degne di un culto pagano. Krusciov occultava abilmente da una parte quel che rivelava dall’altra. Milioni di detenuti politici tornarono alle loro case, ma riabilitati individualmente per grazia ricevuta e non per diritto proprio...
La sfida di Krusciov aveva qualche flebile possibilità di riuscita, solo se quella dittatura dal volto (un po’ più) umano avesse consentito anche una svolta nella distensione Est-Ovest. Non per nulla, dalla tribuna del congresso era stato lanciato un duplice messaggio, questa volta esplicito: l’Urss era pronta a difendersi e l’accademico Kurciatov vantò i progressi dell’arma atomica realizzati con il suo assistente prediletto, il futuro dissidente Sakharov. Ma tendeva la mano oltre la cortina di ferro, in nome della pace e della salvezza del genere umano.
Il colpo era audace e, mentre scompigliava il mondo comunista, fu sul punto di sedurre quello libero. Per mesi e mesi la stampa anglosassone volle leggere nel rapporto anche quel che non conteneva, come se già non bastasse quel che vi era scritto. Krusciov era diventato l’eroe del giorno, un leader con il quale l’Occidente poteva fare non solo affari (quelli si erano sempre fatti) ma accordi strategici per evitare che la guerra fredda diventasse calda. La prima occasione fu offerta dall’Inghilterra, dove Krusciov si recò in aprile, ottenne un vistoso aumento dell’interscambio e fu congedato da un falco come il conservatore Eden con il riconoscimento che la visita aveva segnato «l’inizio di un nuovo inizio». Un mese dopo toccò al francese Guy Mollet recarsi a Mosca: altri sorrisi, altri contratti. In Italia, Fanfani, ormai saldamente a capo della Dc, vi trovò munizioni per l’apertura a sinistra. Ma ovviamente tutti gli sguardi erano rivolti a Washington. Sin dall’indomani del rapporto segreto, il segretario di Stato, un altro falco inossidabile come Allen Dulles, aveva dichiarato al Senato che i sovietici stavano «rivedendo la loro fede dalla A alla Z». Per Krusciov era l’attesa apertura di credito.
E iniziò la luna di miele. Il 1º marzo Eisenhower scrisse a Bulganin, nominale capo di Stato sovietico, per rilanciare l’accordo sulle armi fissili. A fine aprile Washington autorizzò l’esportazione verso l’Urss di un lungo elenco di prodotti sensibili. Il 14 maggio, pungolato dall’attivismo del rivale Tito, Krusciov lanciò un annuncio sensazionale: l’Urss avrebbe ridotto le sue forze armate di un milione e 200mila uomini entro un anno. Gli americani sapevano che si trattava della parte meno efficiente dell’apparato bellico dell’avversario. Ma il colpo di scena era riuscito: meno armi e più pane. Krusciov apparve al mondo come una colomba sia pure coi denti di ferro (quelli che gli restavano). Per i popoli dell’Urss sembrò finalmente aprirsi un’era di pur minima prosperità.
Durò poco. La crisi non venne né dai russi né dall’Occidente ma dai Paesi «fratelli», dove la gente cominciò a esigere dai ducetti locali quella liberalizzazione che essi non volevano né potevano concedere. Il segnale fu dato dagli scioperi polacchi di Poznán, in giugno, brutalmente repressi per ordine o con l’assenso di Krusciov, deciso a non dare l’impressione, secondo un gergo che gli era caro, di «essersi calato le brache».

Il circolo vizioso del totalitarismo restava senza uscite. La sorte del sistema era segnata, sia pure a medio termine. Ma lo era anche quella dell’incoerente riformismo kruscioviano. Baffone, dall’oltretomba, si era vendicato.

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