Gian Micalessin
da Teheran
La paura adesso fa novanta. E neppure Hashemi Rafsanjani si fida più. L'ex grande favorito, l'ex presidente sicuro di tornare alla guida del Paese teme ora di ritrovarsi vittima degli stessi brogli e delle stesse manovre che, secondo voci e sospetti, avrebbero garantito all'integralista sindaco di Teheran Mahmoud Ahmedinejad il secondo posto e l'accesso al ballottaggio. Roso dal timore di una spietata umiliazione ieri Rafsanjani meditava d'annunciare il ritiro in segno di protesta per le irregolarità e i brogli registrati al primo turno delle presidenziali. A fermarlo, secondo un sito iraniano solitamente ben informato, Baztab, è stato il perentorio richiamo della suprema Guida Alì Khamenei che gli ha ordinato di fermarsi per «non far cadere nel caos il Paese».
Il resoconto di Baztab disegna la lacerazione ai vertici del Paese. Uno scontro viscerale tra due padri della rivoluzione islamica prolungatosi dalla morte dell'Imam Khomeini. Allora il Consiglio dei Guardiani ignorò l'ambizioso Rafsanjani e gli preferì il più controllabile Alì Khamenei. Diciassette anni dopo Rafsanjani era pronto per la riscossa. Sognava di riconquistare la poltrona di presidente e da lì scippare alla Suprema Guida il ruolo di principale autorità del Paese. Il disegno era scritto nel suo programma elettorale. Sul fronte interno Rafsanjani puntava ad una moderata evoluzione sociale ed economica capace di garantirgli l'appoggio di giovani ed intellettuali. Sul fronte esterno era pronto a trasformarsi nell'interlocutore unico di Stati Uniti e resto del mondo nella difficile contesa sul nucleare e nelle questioni irachena e mediorientale.
Khamenei l'ha fermato scatenandogli addosso la meteora Ahmedinejad e garantendole il pieno appoggio di servizi segreti, apparati paramilitari e clero integralista. Ma ora Khamenei non può permettere al nemico di ritirarsi. Non può concedere all'eterno rivale a conoscenza di tutti i segreti del potere di lasciarlo come un re nudo chiamato a rispondere di accuse e sospetti. Khamenei impone a Rafsanjani di restare in gioco, di finire la partita, di accettare se necessario la propria umiliante sconfitta.
Sotto le ceneri della competizione elettorale e del ballottaggio cova dunque una lotta tra titani del potere. Una lotta in cui tutti gli altri sono solo comprimari e controfigure. La prima comparsa è Mahmoud Ahmedinejab. Un duro incaricato di simboleggiare l'inferno che Khamenei e i suoi sono pronti a scatenare pur di non darla vinta a Rafsanjani. Un inferno da evitare magari con un accordo dell'ultimo minuto, con un ennesimo accordo sulla spartizione del potere capace di far eclissare, un istante prima del ballottaggio, la comparsa Ahmedinejab. Ma per ora quella comparsa esiste e simboleggia, come ripetono nei loro appelli i sostenitori di Rafsanjani, l'incubo di un «ritorno all'ortodossia di vent'anni fa». Ieri Ansari Hejmatullah e il religioso Ahmad Mohebbì Shulami, dirigenti del «Fronte della volontà nazionale», formazione di centrodestra schierata con l'ex presidente, continuavano a dichiararsi incerti sulle possibilità di vittoria, ad appellarsi all'elettorato e a chiedere mobilitazione e vigilanza.
Tanta preoccupazione sembrerebbe eccessiva visto che i principali gruppi riformisti stanno facendo convergere i voti su Rafsanjani. Ma evidentemente non è solo questione di voti. Lo s'intuisce dalle sconclusionate mosse dell'ex capo della polizia Mohammed Baqer Qalibaf. Abbandonato a favore dell'outsider Ahmedinejad l'ex capofila della destra ieri è andato a trovare Rafsanjani offrendogli il peso non indifferente di quattro milioni di voti. Ma in serata un'altra perentoria telefonata della Suprema Guida lo ha convinto a smentire tutto.
Per capire ancora meglio che aria tiri nel Paese basta bussare all'ingresso di Aftab Yazd un quotidiano vicino all'ex presidente del Parlamento Mehdi Karroubi. Il «trombato» eccellente retrocesso dal secondo al terzo posto non ha solo denunciato i brogli, ma ha anche indirizzato una durissima lettera al Leader Supremo accusandolo di non intervenire per far chiarezza. E ieri mattina Aftab Yazd ed altri tre quotidiani con in prima pagina quella missiva proibita non sono arrivati in edicola. Ma l'elegante signora Soudabeh Qaisarim, membro della direzione del quotidiano, minimizza tutto. «Messi al bando? Non è vero, abbiamo solo deciso di non uscire per non turbare l'atmosfera del Paese». Così dalle edicole iraniane è scomparsa la notizia di un altro dogma infranto, di un altro tabù violato. Kharroubi, un uomo con il turbante, un religioso, ha apertamente accusato Khamenei di non rispettare la legge e di contravvenire al proprio ruolo.
Ieri il Consiglio dei Guardiani ha cercato di metter tutto a tacere concedendo un simbolico riconteggio dei voti.
Gian Micalessin
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