Brucia anche l’Egitto, trema il faraone Mubarak

Hanno manifestato in migliaia ieri nel centro del Cairo, nei quartieri più periferici, ad Alessandria e in altre città del Paese. E a Suez, a nord est della capitale, la protesta si è già macchiata di sangue: almeno due i manifestanti morti. Se finora si è soltanto parlato della possibilità di un contagio, i disordini delle scorse ore in Egitto sono la prova che esiste già un effetto Tunisia. «È un giorno storico», ha detto Amr Chobaki, analista egiziano: non si ricorda nella storia recente del Paese una partecipazione così elevata a una contestazione contro il regime. Al contrario della Tunisia, dove il dissenso sotto l’ex rais Zine El Abidine Ben Ali era totalmente bandito, qui il potere lascia spazio a una debole e frammentata opposizione.
Negli ultimi anni però, dissidenti e attivisti sono riusciti ad attirare al massimo un centinaio di persone alle proteste di piazza. E di solito i pochi partecipanti, sempre circondati da un robusto gruppo di poliziotti, sono intellettuali, politici e militanti. Ieri nelle manifestazioni davanti al ministero dell’Interno, ad alcuni sindacati, nel quartiere popolare di Shubra, vicino ai grandi hotel lungo il Nilo, nella piazza centrale, midan Tahrir, c’erano lavoratori, professionisti, casalinghe, signore ingioiellate, studenti. Le proteste sono state incoraggiate da alcuni gruppi anti-regime attraverso Facebook e Twitter. In strada però non c’era tutta l’opposizione egiziana: mancavano alcuni partiti.
Erano assenti, in quanto movimento, i Fratelli musulmani, gruppo islamista fuorilegge capace di attirare a eventi come questo centinaia di sostenitori. Quella di ieri tuttavia sembra essere la protesta più seguita degli ultimi decenni. La rivolta tunisina sembra aver dato coraggio a persone che prima d’ora non avevano mai osato sfidare le forze dell’ordine. Soltanto al Cairo i poliziotti in assetto anti-sommossa erano quasi 30mila. Hanno usato gli idranti e i lacrimogeni per disperdere la folla. Ci sono stati scontri tra polizia e manifestanti e arresti in diverse parti del Paese, un poliziotto sarebbe morto calpestato dalla folla. Il contagio tunisino è presente anche nei modi e nei toni della protesta. Non si grida più, come spesso accade nelle strade arrabbiate dei Paesi arabi, contro gli Stati Uniti e Israele, per il ritiro americano dall’Irak. Il dissenso è ormai rivolto soltanto all’interno. Come i manifestanti tunisini, anche gli egiziani ieri hanno chiesto migliori condizioni sociali, stipendi più alti, prezzi degli alimenti più contenuti e soprattutto la fine di un regime autocratico e poliziesco. «Ci sono tante ragioni per questa protesta - spiega Chobaki - le frodi delle ultime elezioni di novembre, la stagnazione politica, le leggi di emergenza in vigore dal 1981, ma anche la crisi economica e le questioni sociali. Sono questioni vicine alla popolazione, non soltanto agli intellettuali e agli attivisti. Ecco perché ci sono così tante persone in strada. In queste ore, non esiste una frattura fra l’opposizione e la popolazione».
Eppure, dice una giornalista egiziana, non si può parlare di «rivoluzione». «Ci sono similitudini con la Tunisia: il tasso di disoccupazione, il malessere sociale, la richiesta di libertà politiche, le proteste in molte città. Ma non siamo ancora al punto di rottura». E la classe media egiziana, spiega, è più conservatrice, più islamizzata e meno moderna rispetto a quella tunisina che ha guidato laggiù la rivoluzione. Resta il fatto che la rivolta dei vicini del Maghreb ha dato coraggio a una parte della popolazione egiziana non abituata a portare in strada le proprie frustrazioni. «Tunisi, Tunisi», hanno gridato ieri i manifestanti del Cairo.

E nei giorni passati, l'onda lunga del dissenso tunisino è arrivata anche in Algeria, Giordania e Yemen, dove si sono tenute proteste contro i governi locali. Secondo il Time, ad Amman l'effetto Tunisia ha dato inaudita forza agli attacchi verbali dell'opposizione che ha chiesto alla monarchia di rendere possibile l'elezione di un primo ministro.

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