Curioso come il tema del buon vicinato sia tornato di moda. Non stiamo parlando delle spesso tormentate relazioni tra condomini (il caso di Erba docet), ma di una forma di «vicinato allargato» che riguarda ormai non solo le metropoli, ma anche la provincia nostrana: il vicinato tra italiani e stranieri.
In questi giorni due convegni, assai affini nel tema e nelle impostazioni, si sono tenuti nella capitale e a Milano. Le conclusioni degli osservatori, interpellati in Triennale su «La città ospitale: welfare locale e sussidiarietà» le condensiamo nella parole di Bruno Volpi, dellassociazione Comunità e Famiglia: «Alla fine i poveri non ci lasceranno dormire». Per poveri si intendono anziani, famiglie monoreddito e, ovviamente, i molti stranieri insediati in città: il 10-25% dei nati negli ospedali milanesi ha almeno un genitore non italiano. Tra le regole per un buon vicinato il convegno propone quella di creare sportelli informativi per giovani imprenditori immigrati: uffici dove trovare informazioni concrete, indirizzi utili e non mero assistenzialismo.
Perché? Augustin Mujyarugamba, presidente dellAssociazione imprenditori immigrati della Lombardia, non crede nei ghetti, né fisici né mentali: il buon vicinato passa dallo studio dellabitabilità dellarea milanese («essenziale per una vera integrazione», spiega) agli strumenti da offrire agli immigrati di prima o seconda generazione che dimostrino idee valide e voglia di fare. Mujyarugamba ci assicura che persone così in Lombardia non mancano e noi ne siamo lieti: vorremmo poter dormire sonni tranquilli (e con la coscienza a posto).
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