William R. Burnett ha sempre sostenuto che la sua carriera di scrittore è stata agli inizi una vera «battaglia». Per sei anni aveva scritto di notte proponendo racconti e romanzi alle case editrici e ricevendo sonori rifiuti, sbarcando il lunario a Columbus come anonimo impiegato all’ufficio statistico dello Stato dell’Ohio, alle prese con pratiche noiosissime e con un intricato sistema burocratico. Poi, nel 1928, il ventinovenne Burnett aveva accettato di trasferirsi a Chicago, dove il padre dirigeva alberghi di second’ordine, trovando impiego come portiere di notte.
La città l’aveva subito sconvolto: «era gigantesca, brulicante, sporca, fracassona, freneticamente viva». Qui la malavita si affrontava a suon di sparatorie e faceva esplodere con lanci di granate bar e negozi pur di ottenere i propri scopi. Come raccontava nel 1957 lo stesso Burnett nella prefazione a Piccolo Cesare (edito originariamente nel 1929 ed oggi ristampato da Sellerio - pagg. 277, euro 11 - in una nuova preziosa edizione che fa seguito a quella dello scorso anno di Giungla d’asfalto), quando decise di mettersi a scrivere una gangster story ambientata a Chicago: «Capone era Re. La corruzione regnava dappertutto! Big Bill Thompson, il sindaco, minacciava di mollare un pugno sul “muso” a re Giorgio d’Inghilterra e i gangsters si sparavano a vicenda per tutta la città».
Burnett cominciò così a prendere appunti, documentandosi meticolosamente sul terribile mondo che lo circondava e frequentando cronisti di nera ma soprattutto piccoli malviventi che gli raccontavano le loro attività criminali. Ascoltando quelle storie si convinse sempre più che il suo romanzo doveva contenere, come spiegava lui stesso, «l’immagine del mondo visto con gli occhi di un gangster. Tutti i sentimenti convenzionali, i desideri e le speranze andavano rigorosamente esclusi. E inoltre il libro andava scritto in uno stile adatto all’argomento, e cioè nell’idioma del gangster di Chicago. Buttai a mare tutto quello che era noto fino a quel momento come “letteratura”. Dichiarai la guerra agli aggettivi. Abolii le “descrizioni”. Cercai di raccontare la storia soltanto per mezzo della narrazione e del dialogo, in modo che fosse l’azione a parlare. Bocciai anche la “psicologia” e cercai con tutte le mie forze di eliminare me stesso e le mie opinioni».
È sintomatico vedere come Burnett in poche frasi riesca a descrivere il gangster Rico Bandello nel brevissimo sesto capitolo del libro: «Rico stava davanti allo specchio, a sistemarsi la chioma con un pettinino d’avorio. Rico andava fiero dei suoi capelli. Erano neri e lucenti, pettinati all’indietro in tre onde simmetriche che partivano dalla fronte piuttosto bassa. Rico era un uomo semplice. Amava solamente tre cose: se stesso, i suoi capelli e la sua pistola. Si prendeva gran cura di tutte e tre». Come ben ci spiega Beppe Benvenuto nella nota che accompagna l’edizione Sellerio di Piccolo Cesare, «William Riley Burnett è stato, a modo suo, un personaggio. Uno scrittore che ha fatto tendenza, in un certo senso un caposcuola. La cosiddetta crimenovel non sarebbe stata la stessa senza le sue opere. Il suo vissuto in presa diretta, da testimone oculare, della Chicago degli anni terribili di Al Capone rappresenta qualcosa di particolarissimo nel panorama della letteratura nordamericana coeva. Scrittore di strada alla maniera di tanti suoi coetanei, se ne differenzia però per un acuto spirito di osservazione delle dinamiche del mondo circostante accanto alla quasi totale assenza di contenuti ideologici e di ogni intento moralizzatore».
Burnett ha dichiarato più di una volta di non essersi rifatto a un modello forte come il contemporaneo Hemingway. Si sentiva più vicino a Dashiell Hammett, Jonathan Latimer e Raymond Chandler e alle loro storie pubblicate su riviste pulp come Black Mask, e dichiarò così di sentirsi un narratore «oggettivo e non autobiografico come Hemingway». A Burnett interessavano i personaggi e le loro vicende, non interessava riraccontare la sua squallida vita, i suoi disperati tentativi di centrare l’obiettivo del successo. Così il protagonista del suo romanzo più fortunato (destinato a lanciare lui, e poi in seguito anche l’attore Edward G. Robinson e a far la fortuna della Literary Guild e della Warner Bros) non è né un detective né un poliziotto, ma «Rico Bandello, assassino e capobanda che non è affatto un mostro, ma soltanto un piccolo Napoleone, un piccolo Cesare».
In un’intervista raccolta dagli studiosi Stefano Benvenuti e Gianni Rizzoni per il loro Il romanzo giallo, Burnett ammetteva che se avesse dovuto trovare un modello letterario per le sue storie lo avrebbe cercato in scrittori europei più che in narratori americani: «il mio stile è frutto di lunghi studi su Mérimée, Flaubert, Maupassant e anche su Pío Baroja. Ma molto devo a uno scrittore italiano, Giovanni Verga, che, a mio parere, con Mastro Don Gesualdo, ha scritto il più importante romanzo realistico in senso assoluto, e i cui racconti sono migliori di quelli scritti da Cechov e da Maupassant». Piccolo Cesare fu il primo passo importante della carriera dello scrittore americano. Sarebbero seguiti altri successi come Giungla d’asfalto, La trappola, Eri un’abitudine.
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