da Washington
«Ritirarsi dall'Irak ora vorrebbe dire consegnare il Paese a un nemico che vuole attaccarci e manderebbe al mondo il segnale che dell'America non c'è da fidarsi». Il presidente americano George W. Bush ripete ancora una volta limportanza per gli Stati Uniti di ritirare le truppe solo nel momento in cui il Paese sarà in grado di difendersi da solo dalla guerriglia sunnita. Per Bush, le elezioni di giovedì scorso in Irak «non significano la fine della violenza», ma sono piuttosto «l'inizio di qualcosa di nuovo: una democrazia costituzionale nel cuore del Medio Oriente. E questo voto, a quasi diecimila chilometri di distanza, in una regione vitale del mondo, significa che l'America ha un alleato di forza crescente nella lotta contro il terrorismo».
Il discorso di Bush è arrivato dopo la visita a sorpresa in Irak del vicepresidente Dick Cheney, che ha incontrato il presidente iracheno Talabani e il premier Al Jaafari, si è rallegrato per «le fantastiche elezioni» e si è complimentato con i vertici delle forze armate Usa nel Paese, rimarcando che «andare via ora sarebbe lunico modo per perdere». Cheney ha poi parlato a Bagdad rivolgendosi a una folla di militari statunitensi, tenuti alloscuro fino allultimo del suo arrivo e riuniti per ascoltare un «ospite segreto». «Alcuni sostengono - ha detto il vicepresidente - che la guerra non si può vincere e altri, pochi, sembrano piuttosto ansiosi di dimostrare che la guerra è già finita. Ma sbagliano - ha sostenuto Cheney - lunico modo per perdere è andarsene, e questa non è unopzione».
Tornando alle elezioni, sicuramente le ha perse la guerriglia, che non è riuscita, per la terza volta, a costringere gli iracheni a disertare le urne. La macchina militare ha funzionato complessivamente più che bene e le forze di sicurezza locali hanno giocato un ruolo davvero significativo. Ora però sono in tanti ad aver voglia di incassare il «dividendo» di questo successo, procedendo al ridimensionamento delle forze della coalizione. Un primo passo in questa direzione verrà con il ritorno del dispositivo militare alleato ai numeri precedenti la fase di emergenza elettorale, che si è protratta per oltre quattro mesi: per il Pentagono questo vuol dire scendere da quasi 160mila soldati a circa 137mila. E per fine 2006 altri 7-10mila soldati potranno forse rientrare.
Parallelamente anche molti dei Paesi alleati si apprestano a limare o a preparare il ritiro dei propri soldati. In particolare la Gran Bretagna, che si sta preparando ad assumere il comando delle operazioni in Afghanistan, dove dovrà schierare migliaia di soldati, spera di poter ridurre il proprio impegno nel sud del Paese. LItalia è pronta a fare la stessa cosa, naturalmente gradualmente.
Però, anche se ai politici farebbe comodo poter offrire allopinione pubblica una tabella di marcia precisa, un piano di disimpegno militare con appuntamenti predefiniti, in realtà una scelta del genere sarebbe controproducente. Ad esempio, offrirebbe alla guerriglia lopportunità di decidere un rallentamento dellattività, per risparmiare uomini e mezzi e poi riprendere in forze loffensiva quando americani e alleati saranno meno numerosi.
Sarà la situazione militare, politica e sociale a dettare il passo. Nel contempo le forze irachene hanno compiuto straordinari progressi: contavano 96mila uomini a settembre 2004, sono salite a 212mila alla fine di novembre 2005 e gli effettivi continuano a crescere. Il lavoro da compiere è ancora molto, ci vuole tempo per consentire alle unità irachene di acquisire quella esperienza sul campo, assolvendo compiti sempre più difficili. Ciò è indispensabile per dare un significato a corsi di formazione che restano comunque molto compressi. Inoltre laddestramento è focalizzato sul contrasto alla guerriglia, ma le reclute prima o poi dovranno acquisire un bagaglio più completo.
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