Roma - Il cardinale Carlo Maria Martini riapre improvvisamente il dibattito su eutanasia e accanimento terapeutico. Lo fa citando il caso di Piergiorgio Welby e la «lucidità» con cui «ha chiesto la sospensione delle terapie» non avendo «alcuna possibilità di miglioramento» e invitando la Chiesa a una «attenta considerazione», anche pastorale, della volontà del malato. Una riflessione che convince solo in parte un cattolico «doc» come il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione.
Onorevole Buttiglione, condivide la posizione dell’arcivesco emerito di Milano?
«Sono d’accordo con lui laddove invita a non confondere l’eutanasia con l’accanimento terapeutico. Il punto di partenza non mi sembra, invece, condivisibile, perché io credo che la battaglia di Welby non sia stata una battaglia per la rinuncia all’accanimento terapeutico ma piuttosto per rendere incerti i confini tra eutanasia, testamento biologico e accanimento terapeutico».
Il riferimento al caso Welby appare propedeutico a una richiesta che Martini fa successivamente: elaborare norme che consentano al paziente di respingere le cure.
«Il primo problema è capire davvero cosa è stato il caso Welby. Welby inizialmente non ha chiesto la sospensione delle cure bensì l’eutanasia, diventando così la bandiera di una campagna politica e mediatica. Non si comprende la decisione del Vicariato sui funerali che tanto ha fatto discutere se non si parte da questo dato di fatto».
Qual è il confine tra cure mediche appropriate e accanimento terapeutico?
«La rinuncia alle cure è accettabile soltanto quando si seguono terapie che possono prolungare di poco la vita del paziente senza speranza di restituire la salute. In questi casi si può abbreviare il processo della morte, somministrando piuttosto terapie palliative che evitino la sofferenza. Ma sull’onda del caso Welby si è cercato di abbattere la distinzione tra eutanasia attiva e passiva».
Qual è la distinzione tra eutanasia attiva e passiva?
«L’eutanasia attiva prevede la somministrazione di sostanze velenose. Quella passiva prevede tre possibilità: la sospensione dei trattamenti, la somministrazione di antidolorifici e la sospensione della idratazione e della alimentazione artificiale. La terza è inaccettabile e brutale, visto che prevede la morte per fame e per sete».
Il cardinal Martini invita a «non trascurare la volontà del malato», anche se sottolinea che l’autonomia decisionale non può considerarsi «assoluta».
«La lucidità è importante. Ma se io chiedo lucidamente l’eutanasia è un motivo sufficiente per concedermela? Nessuno può ordinare a un altro uomo di ucciderlo, su questo ci vuole grande chiarezza».
Ma allora a quali condizioni un malato può chiedere la fine dell’accanimento terapeutico?
«Ci sono tre situazioni. La prima. Chiedo di non essere messo sulla macchina cuore-polmoni? Ho il diritto di farlo. La seconda: sono già attaccato a una macchina e chiedo la sospensione del trattamento. Qui c’è spazio per una valutazione del medico perché se c’è una aspettativa di vita lunga come fai a togliere questo supporto? Il parere del paziente non può essere l’ultima parola. Si può arrivare al punto di un paziente che chiede di staccare la spina anche se ha anni di vita davanti. E se lo chiede solo perché è depresso?».
È passato un mese dalla morte di Welby. I riflettori si sono spenti e si può ragionare a mente fredda. Lei condivide ancora la decisione di non concedere i funerali religiosi?
«La Chiesa non ha stabilito che è vietato pregare per Welby.
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