Da qualche settimana, il martedì sera non ricevo (si diceva così una volta) né esco, ma mi chiudo in casa e guardo alla tv Lando Buzzanca. La prima volta è successo per caso e sono rimasto lì, «medusato», come se quel volto dai tratti del Giacomo Casanova da vecchio (la rassomiglianza con il ritratto praghese «dal vero» del 1787 è impressionante) avesse il potere della mitica Gòrgone: la guardavi e restavi impietrito.
Buzzanca fa un commissario, si chiama Vivaldi, vive a Trieste e intorno gli hanno costruito un ambiente che un po’ suona kitsch e un po’ è uno spaccato dell’Italia: un figlio omosessuale, un matrimonio fallito, un collega che vuole fargli le scarpe, un magistrato ottuso, un amico alcolizzato... Lui si carica tutto sulle spalle e riempie la scena: non gigioneggia mai, non sbava mai, è reale, umano e quindi fragile, fragile eppure a suo modo indistruttibile. È uno sconfitto dalla vita che non ce la fa a dichiararsi vinto.
È una sensazione che Buzzanca uomo e attore conosce bene. Negli ultimi vent’anni è stato un illustre desaparecido della scena cinematografica, dopo esserne stato per tutto il decennio precedente e oltre un mattatore. Era cambiato il clima e lui si fece orgogliosamente da parte: continuò a recitare in teatro, si riconosceva che fosse bravo, ma pesava su di lui l’essere stato l’«homo eroticus», il «merlo maschio» dello schermo... E poi, non era un attore intellettuale: non aveva mai firmato manifesti, partecipato a comizi. Recitava, non era impegnato. E queste sono cose che prima o dopo si pagano in un ambiente che schifa i film di cassetta solo perché non li sa fare, e pensa che il primo compito di un artista consista nell’essere noioso.
La resurrezione di Buzzanca è di pochi anni fa. Una prima serie di Vivaldi, una parte nei Viceré di Faenza dal romanzo omonimo di De Roberto, un’altra nello sceneggiato televisivo sullo Scandalo della Banca Romana e ora di nuovo Vivaldi. È molto eppure troppo poco per uno che ha superato i settant’anni, anche se non li dimostra. Ma questa è l’Italia ed è inutile lamentarsi.
Il suo giganteggiare televisivo ci dice però anche un’altra cosa. Buzzanca viene dall’Accademia d’arte drammatica, aveva come compagni di corso Bruno Cirino, Ugo Pagliai, Mariano Rigillo, ha esordito al cinema con Pietro Germi, nel 1963 prese il Nastro d’argento per La Parmigiana di Pietrangeli, ed era il suo secondo film... Viene cioè da un’epoca e da un mondo di cui ormai riusciamo a fatica a recuperare i tratti: l’idea di gavetta e l’esempio dei più bravi, l’essere grandi registi e insieme persone semplici, il piacere del lavoro senza l’ansia di arrivare, il prodotto artigianale ben fatto... Intervistare oggi un giovane attore o un giovane regista affermati è un calvario che assomiglia a quello dei cronisti politici: risposte insulse o evasive, smanie da prima donna, attese estenuanti... Ne vale la pena? No.
Buzzanca-Vivaldi riempie la scena perché è credibile, si sovrappone al personaggio, è quel personaggio lì. Sembra che per anni non sia stato altro, così come nei Viceré era il principe de Uzeda da sempre, da prima ancora che De Roberto lo scrivesse. E lo è con quella faccia piena di rughe, il nasone, le mascelle quadrate, così caratteristica, così marcata e marchiata eppure di volta in volta così diversa e così aderente al personaggio interpretato. Ciò emerge ancor più nei confronti, nei faccia a faccia: perché dove gli altri recitano, Buzzanca è.
C’è un altro elemento che rende la serie televisiva interessante, ed è Trieste. C’è questa città adriatica che sembra un’Italia in esilio, piena di piazze e vuota di gente, invecchiata nel suo essere sempre e comunque a parte e di parte, un anacronismo patriottico di cui nessuno vuole più parlare, bagnata dall’acqua e flagellata dalla bora, decaduta ma senza aver perso la sua nobiltà di sconfitta. Vivaldi-Buzzanca la attraversa con il passo veloce di chi si illude di avere ancora tempo davanti a sé, ma subito dopo deve fare i conti con il respiro che si fa affannoso.
Spesso si ferma al porto e resta in silenzio a guardare il mare, l’unica cosa in grado di dargli pace: perdersi in un’azzurra immensità dove i ricordi sfumano, la vita retrocede e ci si rende conto che al fondo il tutto e il niente sono le due facce di un’unica medaglia. Lunga vita, Aldo: sei rimasto verticale e non ti sei mai pianto addosso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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