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1996, Castel di Sangro in B: un calabrone convinto di volare

Un paesino con un pugno di abitanti, un allenatore avvezzo al rischio, la favola impossibile della provincia che sale al potere

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Claudio ha i piedi buoni. Quando si presenta davanti alle telecamere di Rai Sport, il respiro affannato, la maglietta fradicia di sudore, è ebbro di gioia. Di cognome fa Bonomi. "Dovevamo volare senza saperlo. Come un calabrone. Ce l'abbiamo fatta". In paese, nei giorni successivi, esploderà una festa misurata soltanto nel numero. Perché in fondo Castel di Sangro conta appena cinquemila abitanti. Un pugno di case in un fazzoletto d'Abruzzo.

Sono saliti dalla C2 dopo sei anni di villeggiatura. Il Grand Commis di questo impensabile acchiappo si chiama Osvaldo Jaconi, quasi cinquant'anni quando scocca quell'estate del 1996. Certo, la proprietà si è fatta più ambiziosa nel corso degli anni, ma riscrivere quella geografia calcistica non era per nulla semplice. Figurarsi adesso, al primo anno di C1. Qui si sale di livello. Qui si rischiano le imbarcate.

Però ci sono alcune faccende che depongono a favore del Castello. La prima circostanza è che la rosa appare più che decente. C'è il mancino educato del centrocampista Bonomi, appunto. Ci sono due attaccanti discretamente ispirati come Giacomo Galli e Francesco Caruso, ci sono i difensori Altamura e Fusco, che era addirittura attaccante, ma Jaconi l'ha arretrato prima a centrocampo e poi davanti al portiere. Ecco, una sequela di affidabili boiardi capaci di sprintare grazie alle intuizioni coraggiose del loro referente. E non soltanto, perché Osvaldo non nasce letterato, ma apprezza la forza salvifica premuta dentro le metafore. Un giorno ne legge una che lo scuote e lo esalta: "In relazione alla sua struttura alare il calabrone non potrebbe volare, perché è troppo pesante. Ma lui non lo sa e vola lo stesso". Ok, la conosciamo tutti. Ma ventisette anni fa mica era così popolare. Jaconi ci crede talmente tanto che la fa incidire su un muro del centro sportivo.

Grossi insetti che fluttuano sul bordo di uno stagno vorace, pensano i più calcisticamente istruiti. Ma il Castel di Sangro li sconfessa tutti. Squadra corta, affamata, razionale. Pareggia la prima fuori, fa altrettanto in casa, davanti ai 1300 radunati al Teofilo Patini. Poi vince di misura sul gigantesco Lecce di Ventura, stranendo tutti quanti, ma l'incipit resta tossicchiante. Quando però Jaconi strofina le giunture di quel diesel, i risultati giungono a manovella. Al punto che, a fine stagione, lo sparuto popolo sangrino si ritrova secondo alle spalle del Lecce. Play off per andare in B. Roba da Tso per chiunque l'avesse vaticinato a inizio stagione.

Soltanto che adesso è finita, predicano i menagrami di professione. Perché fino a qui ci sono arrivati con tempismo, talento e fortuna. Ora quegli altri li faranno fuori. Non importa se sono arrivati dietro. La sventura propalata dagli estensori di queste previsioni pare subito concretizzarsi. Il Castello esce sconfitto 1-0 in Umbria, contro il Gualdo che era arrivato quinto. Però per passare in finale gli basta vincere in casa, visto che si è classificato davanti.

E qui imperversa lo psicodramma. Perché a ridosso del novantesimo i dignitari di Jaconi se ne stanno ancora incollati su un mestissimo zero a zero. La fortuna langue. La verve per ribaltare questo destino infido pure. Seduto sull'altra panchina, Alberto Cavasin pregusta la finalissima. Fine della favola. Ali spezzate. Qualcuno molla già lo stadio. Osvaldo però non ci sta. Comprende che il destino necessita di una spintina. Ed estrae un panchinaro dal cilindro: dentro il difensore Salvatore d'Angelo (appena sette presenze) per Bonomi. Figurarsi. Pubblico inferocito. Ma come? Togli l'unico capace di fare veramente la differenza quando il gol è un'urgenza irrimandabile? Eppure il fato flirta con il mister. Novantesimo. D'Angelo si spinge in avanti, controlla un pallone vagante in area con il sinistro e conclude con il destro, il piede debole. Gol. Castel di Sangro in finale. Tifosi giallorossi impazziti.

Ma il Leviatano non è ancora sconfitto. Sul neutro di Foggia, il 22 giugno del 1996, si gioca la finale che vale l'accesso al piano superiore. La serie B. Davanti c'è l'Ascoli, che per tradizione incute un giustificato timore, oltre al fatto che lì ci gioca il bomber Mirabelli, 22 reti in stagione. Ne esce una gara tirata, equilibrata, che sfila inesorabile verso la spietata roulette dei rigori. Jaconi si sfrega la fronte congiungendo indice e pollice. Sì, per sfangarla serve un'altra mezza follia. "Scaldati, pari te i rigori", dice al secondo portiere Spinosa, che non ha giocato nemmeno un minuto in campionato. Quello si indica, esterefatto. Il titolare, De Iuliis, è inferocito. Ma Osvaldo ha decretato la sua sentenza. Giochetto psicologico o scompenso mentale? Lui comunque ci crede.

Solo che stavolta gli déi del calcio sembrano voler punire quell'umana tracotanza. Bonomi centra la traversa. Spinosa viene puntalmente spiazzato. Adesso pare veramente finita. Però Mirabelli calcia fuori. Si va ad oltranza. Giostra crudele e infinita. Finchè Spinosa, stanco di raccogliere palloni, decide di non muoversi. Il centrocampista Milana calcia centrale e lui respinge. Sei a cinque. Castello in B. Fantasia talmente fervida che nemmeno in un kolossal fantascientifico.

Il calabrone sale ancora più in alto. Più avanti cadrà.

Ma intanto che fantastica follia, volare senza chiedere permesso.

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