Cosa vuol dire la terza stella per l'Argentina

Il Paese sudamericano prova a rifarsi nel calcio per andare avanti e dimenticare le tante difficoltà economiche e sociali

Cosa vuol dire la terza stella per l'Argentina

Chi segue i mondiali ha ben in mente il motivetto introduttivo dell'inno argentino. È lo stesso fischiato dal pubblico dell'Olimpico prima della finale di Italia '90, con Maradona in campo che risponde lanciando improperi verso gli spettatori.

Ma il 22 novembre scorso, prima dell'esordio di Messi e compagni contro l'Arabia Saudita nel mondiale qatariota, allo stadio di Losail è stato intonato un altro motivetto. A molti è sembrato quasi che l'Argentina ha cambiato inno nazionale. Così non è. Il motivo per cui i tifosi hanno intonato un'altra melodia è dato da una precisa scelta dell'allenatore Scaloni: far risuonare non più il motivetto iniziale senza parole, ma andare dritti nella parte finale dell'inno. Lì dove la strofa recita “Coronados de gloria vivamos, o juremos con gloria morir”. Basta forse questo a spiegare in che modo l'Argentina ha vissuto il mondiale appena vinto. E quanta aspettativa, non solo sportiva, è stata attribuita al torneo più seguito.

Cercare un nuovo Re a tutti i costi

Negli ultimi quattro anni nel mondo è successo di tutto. E in Argentina anche di più. Il quadriennio tra le ultime due coppe del mondo è stato caratterizzato dal coronavirus, un problema però che ha riguardato l'intero pianeta e non solo il Paese sudamericano. Qui senza dubbio le conseguenze del Covid hanno inciso più che da altre parti. L'Argentina è uscita dalla fase più acuta della pandemia con un'inflazione in netta virata verso il 70% e l'80%. La disoccupazione è in netta crescita e a livello politico si sono create non poche spaccature tra il presidente Alberto Fernandez e la vice presidente Kirchner.

C'è stato però un fatto ancora più importante che incide sugli anni più recenti del Paese. Il 26 novembre 2020 è morto Diego Armando Maradona. Un simbolo, un monumento, un riferimento che va ben oltre i confini calcistici. Se si chiede a un argentino dove si trovava nel momento in cui la tv ha dato la notizia della scomparsa del pibe de oro, senza dubbio è in grado di rispondere dettagliatamente. Maradona è forse l'unico punto fermo in un Paese dove il significato di stabilità risulta smarrito da tempo e forse quasi cancellato dal vocabolario politico e sociale.

Nel 2014 l'Argentina ha perso la finale a Rio de Janeiro, ma Maradona era ancora vivo e ha potuto incitare i suoi quattro anni dopo in Russia nella non fortunata spedizione moscovita. Senza il “dieci” per eccellenza, gli argentini hanno quindi avuto fretta di mettere la corona sulla testa di Messi. Ecco il perché di un'attesa così marcata del mondiale qatariota e il perché di una pressione così forte sul nuovo numero dieci. Far alzare la coppa a Messi è servito non tanto a cancellare gli ultimi difficili quattro anni, quanto invece a incoronare il nuovo Re albiceleste, il nuovo idolo per dare un seguito all'eredità di Maradona. Non è un caso se a Doha i tifosi argentini, assieme a quelli marocchini, sono stati i più presenti durante il mondiale. Ma se la presenza nordafricana è stata giustificata dall'impresa del Marocco, capace di spingersi fino in semifinale, quella argentina apparentemente non ha avuto grandi spiegazioni. Se non, per l'appunto, nella ricerca di una coppa del mondo capace di esorcizzare fantasmi tanto sportivi quanto politici ed economici.

Un Paese che ha perenne necessità di avere punti fermi

Gli argentini hanno vagato alla ricerca di un nuovo Re, in parte l'hanno trovato quando Messi ha alzato la coppa davanti l'emiro del Qatar. Ma l'esodo sulle sponde del Golfo è spiegabile anche andando oltre gli ultimi quattro anni. C'era un'attesa sportiva che durava dal 1986 e, al tempo stesso, un'aspettativa ancora più profonda che ha radici nella società del Paese sudamericano.

In Italia e in Europa il Covid ha distrutto ogni certezza, nel mondo occidentale una variabile in grado di modificare gli stili di vita fino al 2020 non era forse ben contemplata. In Argentina invece è da decenni che la popolazione vive nella perenne incertezza. Negli anni è capitato più volte a Buenos Aires di addormentarsi in un Paese in pace e di svegliarsi con generali al potere. Oppure di alzarsi al mattino e scoprire di non avere più risparmi per via di improvvise e repentine politiche di svalutazione della moneta.

Una costante instabilità che nel corso del tempo come risultato ha assottigliato e impoverito sempre di più la fascia media, rendendo la vita molto difficile alla stragrande maggioranza della popolazione. E il popolo così spesso si è rifugiato nel mondo del pallone. Unica certezza, spesso traditrice per i risultati mancati nel dopo Maradona, ma di certo mai avara nel regalare emozioni e distrazioni.

Buenos Aires piegata dall'inflazione

Attualmente la prima vera piaga per gli argentini è rappresentata dall'inflazione. Gli ultimi dati parlano di un dato annuale vicino al 100%. Gli stipendi e i redditi medi valgono molto poco. Acquistare generi di prima necessità sta diventando, giorno dopo giorno, sempre più difficile. Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Ma adesso la situazione è resa più critica da un sistema economico fortemente colpito dal coronavirus.

È così iniziata la corsa a nuovi prestiti. Il ministro dell'economia Massa a Washington nelle scorse settimane ha rassicurato i vertici del Fondo Monetario Internazionale sulle riforme richieste per continuare con il piano di ristrutturazione del debito concordato già alcuni anni fa. La banca centrale invece sta puntando ad alzare i tassi di interesse mentre, tra non molto, il governo potrebbe approvare nuove stretta sulla spesa pubblica. Ma oltre ai conti, a preoccupare è l'intera struttura economica del Paese: indietreggia il settore industriale, indietreggiano le esportazioni, chiudono molte aziende.

Il calcio come punta di orgoglio

La vittoria della nazionale quindi sta permettendo alla popolazione di vivere un momento di ritrovata felicità. Un minimo di gioia nel mezzo di un marasma generale che sta coinvolgendo ogni settore. Sarebbe però ingiusto attribuire alla coppa del mondo alzata a Losail solo un momento di fugace soddisfazione. L'Argentina ha forse avuto il giusto premio a una scuola calcistica a cui è spesso mancata “soltanto” la spinta finale per togliersi di mezzo la nomina di eterna perdente.

Fino al 1978 l'albiceleste era a secco di mondiali, complice anche la scelta di non partecipare ad alcuni dei primi tornei organizzati negli anni precedenti. E questo ha fatto sviluppare più volte un certo complesso di inferiorità al cospetto di Brasile e Uruguay, giusto per rimanere in Sudamerica.

Adesso, con la terza coppa alzata dai propri giocatori, l'Argentina si è messa al pari, o quasi, con la propria tradizione. Arrivare alla terza stella vuol dire entrare definitivamente nell'Olimpo. Un motivo di orgoglio, uno dei pochi a dire il vero, per una nazione in perenne affanno.

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