Calcio

Doping, parla Tardelli: “Farmaci? Spero di essere fortunato”

Ai tanti protagonisti del passato che hanno parlato sull'abuso di farmaci si aggiunge anche l'ex campione del mondo che ammette come fosse la normalità. C'è anche chi, invece di rivangare scandali del passato, pensa che sarebbe più utile parlare di quel che sta succedendo nel calcio di oggi, forse ancora più esasperato che negli anni '80 e '90

Doping, parla Tardelli: “Farmaci? Spero di essere fortunato”

Non accenna a placarsi la discussione sull’abuso di farmaci nella Serie A del passato e sulle possibili conseguenze sulla salute degli ex calciatori. Dopo le uscite dei giorni scorsi di molti campioni che hanno fatto le glorie del calcio italiano, oggi tocca ad uno dei calciatori più iconici degli ultimi 30 anni, Marco Tardelli. L’ex Juve e Inter ha costruito la sua reputazione non solo sulla tecnica ma anche sul coraggio, la generosità e prestazioni atletiche di altissimo livello. A quarant’anni dal polverone legato alla carnitina, l’ex campione del mondo, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, non ha problemi ad ammettere che ai suoi tempi certi medicinali erano in effetti la normalità.

Chi non ha preso il Micoren? Quando giocavo io, anni 80-90, non c’era quella attenzione alla farmacologia di adesso: il giocatore è più seguito a livello medico, assistito anche sotto l’aspetto psicologico. Un tempo, non era così: se il giocatore aveva un problema, il dottore lo valutava e se proponeva un farmaco, permesso ribadisco, il giocatore lo assumeva e andava in campo. Adesso le società hanno messo a disposizione dei giocatori una struttura medica più complessa, sicuramente più preparata”. Il problema era insomma generalizzato, costringendo campioni anche affermati a giocare sempre, anche quando non erano in condizioni ideali: l’abuso di farmaci era quasi inevitabile. Secondo Tardelli, insomma, era un problema di sistema, figlio delle caratteristiche del calcio di allora. “Le rose erano molto meno numerose, non certo come quelle attuali, e si giocava tanto e di frequente anche allora, tra campionato, coppe internazionali, Nazionale e Coppa Italia. Capitava che si abusasse del nostro corpo, ma sia chiaro non perché ci davano le medicine, i farmaci: eravamo costretti a farlo”. Un lato oscuro di quella che ricordiamo come l’età dell’oro del calcio italiano che, dopo decenni di illazioni e sospetti, starebbe iniziando ad emergere con forza.

"Vorremmo capire cosa ci hanno dato"

Sebbene la figura del medico sociale fosse vista come una presenza amichevole, quasi paterna, le frizioni comunque ogni tanto c’erano. Lo stesso Tardelli ammette che, a volte, ha finto di assumere un farmaco che gli veniva consigliato. La serie di morti eccellenti nell’universo pallonaro hanno costretto molti a tornare sulle scelte del passato e chiedere a gran voce che si faccia chiarezza una volta per tutte su questa pagina poco edificante del passato. Tardelli sembra essere d’accordo con l’uscita di Dino Baggio di pochi giorni fa: “non ha fatto un j’accuse, ha chiesto di capire: datemi una mano a comprendere cosa ho assunto, quali conseguenze possono esserci. La verità è che ogni organismo reagisce in modo diverso”. Ha forse paura, come ammesso da altri calciatori del passato? L’approccio dell’ex bianconero sembra essere quasi rassegnato, fatalista: “Spero di essere fortunato, tutto qui. Non credo che ci sia un legame diretto tra le medicine prese e la morte prematura di certi sportivi. Nessuno ha mai spiegato questa relazione. Come si fa a sostenerlo? Certo che centenari nello sport non si vedono. La normalità è 80-82-83 anni, forse perché il nostro corpo è maggiormente usurato”.

Al collega del Corriere della Sera che gli chiede cosa possano imparare i calciatori di oggi da questa vicenda del passato, Tardelli invita tutto l’universo pallonaro a fare un passo indietro e ripensare tutto. “Bisogna che il calcio si dia una calmata, ma tutti, a cominciare dalle società, non solo i giocatori: questo è un mondo che cerca solo i soldi. Basta, bisogna cambiare”. Come avrebbe detto il generale De Gaulle, “vaste programme”. Difficile che, tra guai giudiziari e dissesti finanziari, il mondo del calcio italiano si impegni in una simile rivoluzione copernicana ma la speranza è l’ultima a morire.

MOMENTI DIFFICILI Zdenek Zeman

Ha senso denunciare 30 anni dopo?

Mentre molti nel mondo dei media sono ben lieti di salire sul carro della polemica e rinfocolare la discussione riportando in maniera acritica le varie dichiarazioni, iniziano anche ad emergere posizioni diverse, che provano a vedere il problema da un’altra angolazione. C’è chi, come Venio Vanni del Napolista, prova a gettare un sasso nello stagno e ricordare come queste accuse fuori tempo massimo, queste lacrime a scoppio ritardato, rischiano di lasciare tutto com’è. Tra le righe si capisce il riferimento a chi, come il controverso tecnico Zdenek Zeman, fu praticamente ostracizzato dal mondo del calcio per aver osato puntare il dito sull’abuso di farmaci, venendo più o meno ignorato da tutti. Forse è ingeneroso paragonare i timori di tanti campioni del passato con l’ondata di denunce a scoppio ritardato delle attrici quando andava di moda il movimento “Me Too” ma difficile nascondersi che è certo molto più facile accusare quando non si ha più molto da perdere.

Discutibile magari ascrivere tutto alla “natura umana”, alla mancanza di coraggio, ad una questione di scelte personali ma d’altro canto non si può non ricordare come nessuno si sia mai presentato con una pistola alla tempia costringendo i calciatori ad assumere quei farmaci che ora gli turbano il sonno. Certo, le pressioni c’erano, come il rischio di essere messi da parte, di vedere la propria carriera accorciata, perdendo parecchi soldi, ma si è sempre trattato di scelte personali. Vero che all’epoca pochissimi avevano la preparazione culturale per mettere in dubbio i consigli dei medici, come è anche innegabile che mettersi di traverso avrebbe causato non pochi problemi nello spogliatoio, venendo visto come un tradimento dai compagni di squadra. Non possiamo nemmeno nasconderci che, anche all’epoca, ci furono parecchie opportunità di farsi avanti e di schierarsi contro al sistema.

Una discussione inutile?

Nessuno sa come sarebbero andate le cose se campioni del calibro di Vialli o Mihajlovic avessero scoperchiato il vaso di Pandora ma i fatti non cambiano: quando il doping andò a processo, moltissimi preferirono tenere la bocca chiusa. Il collega si chiede a cosa serva questa discussione, visto che “ora come ora non si può cambiare più nulla”. Le pressioni sui calciatori sono forse ancora più pesanti che in passato, il sistema è ancora più esasperato, costringendo tutti a correre alla ricerca disperata di risultati, sponsor, investitori, followers sui social.

Ha senso andare a rivangare vicende di quarant’anni fa? Onestamente non saprei ma certo sarebbe molto più utile iniziare a chiedersi se problemi del genere siano spariti davvero o se, anche oggi, i tanti trattamenti medici cui sono sottoposti i calciatori professionisti non siano che evoluzioni del “doping legale” del passato. Questo sì che sarebbe un modo di andare avanti, imparando dall’esperienza del passato per fornire ai giovani che si affacciano al mondo del calcio gli strumenti culturali per scegliere in maniera consapevole.

Si sceglierà davvero di disturbare il manovratore, di porre domande meno scontate, rischiando in proprio? Difficile dirlo ma sarebbe bello. Vedremo se, al contrario del passato, i protagonisti della Serie A non aspetteranno trent’anni per farsi avanti.

Una discussione seria, onesta, su quel che succede nel calcio di oggi sarebbe il modo migliore per ricordare chi, tanti anni fa, pagò il prezzo più alto per scelte non sue.

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