Quella folle corsa di Mazzone sotto la curva dell’Atalanta

Oltre vent’anni fa Carletto impazzì letteralmente al gol del pareggio di Roberto Baggio: un gesto impulsivo, umano e iconico

Quella folle corsa di Mazzone sotto la curva dell’Atalanta
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Si sfrega le mani grosse e callose dopo essere passato in vantaggio. Roberto è appena sfilato alle spalle della difesa bergamasca, trafiggendola quasi fosse burro fuso, con un sinistro volante. Quegli altri però ci sono eccome, in campo. Brescia–Atalanta, del resto, non è mai stata una di quelle partite destinate a venire giù lisce, senza increspature. È, piuttosto, un derby abitato da una rivalità a tratti feroce: il dileggio che scivola giù dagli spalti, sobillato dalla tensione sfoderata in campo, è un congegno estenuante. Fuori è ancora il 30 settembre 2001. Oltre vent’anni fa.

La Dea intanto pareggia. Carletto Mazzone adesso rumina amaro e ci vede giusto. I suoi si rammolliscono e il tracollo è servito. Le linee si sfaldano. Dopo il gol di Sala, arrivano quelli di Doni e Comandini: 1 a 3 in casa, film ribaltato. Rimbalzano fino al tettuccio in plastica delle panchine deprecabili sfottò. Quella che fino a prima era parsa una pioggerellina testarda, adesso si trasforma in grandinata. Il bersaglio è sempre lui, il romanaccio che aveva esultato troppo presto. Sono ingiurie corrosive. Mazzone prova a smanacciarle altrove, ma si conficcano lì, dove fa più male. Quando arrivano a toccargli la mamma – a dire il vero un leit motive di ogni stadio italico – il sangue inizia a pompare a giri doppi.

Ripensa, Carletto, a quando lei gli è morta ancora giovane tra le braccia. Si gira di scatto verso il vice Menichini: "Nun ce sto, nun ce vedo più, me stanno a fà impazzì de rabbia. Mo’ vado e li meno..". Poi avvisa il quarto uomo: "Stamme bene a sentì, tu devi scrivere tutto sul tuo taccuino, perché mo t’avviso che sto fuori de testa. Se pareggiamo scrivi tutto".

Nel frattempo il divin codino accorcia: palla raccolta in area, perno sul marcatore che viene amabilmente buggerato, speranze bresciane gracili, ma ancora vive. Il pubblico ci crede, la squadra anche. Pupille incollate sul campo. L’unico che scruta in direzione opposta è Mazzone. Punta con lo sguardo la curva dell’Atalanta, persuaso alla rappresaglia. "E mò se famo il 3 a 3 vengo sotto lì da voi", borbotta. Schiuma dall’interno un livore incontenibile.

Novantesimo. Punizione decentrata per le rondinelle. Calcia Baggio. Nel suo percorso superiore e merlettato di misteri, i miracoli non sono opportunità laterali. Traiettoria che nasce insidiosa. Non la tocca nessuno. Palla sul palo del portiere, brutalmente gabbato: 3 a 3. Ora saltano tutte le residue saldature mentali. Carletto scatta come un indemioniato verso la curva avversaria. Mentre corre grida: "Mo’ arivo, mo’ arrivo". Lo inseguono, tentando vanamente di placcarlo, il vice Menichini, il dirigente accompagnatore Zanibelli e l’addetto stampa Piovani. Lui si ferma soltanto davanti ai cartelloni pubblicitari, dopo uno sprint di 80 metri. Ai tifosi nerazzurri recapita un classico "Li mortacci vostra". Poi, spompato e soddisfatto, dopo l’efferata vendetta si consegna alla giustizia calcistica. "Buttame fori, me lo merito", sussurra a Collina, inspirando avidamente.

Gli danno cinque giornate. Non fa ricorso, ma vieta categoricamente ai giocatori di imitarlo. Ha sbagliato, certo.

Ma quella corsa forsennata resterà probabilmente per sempre la manifestazione più vivida del credo mazzoniano. Impulso, orgoglio e anche una discreta spolverata di follia.

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