Piazzato davanti a quello schermo che pompa immagini in bianco e nero, la camicia irritualmente arrotolata fin sui gomiti, Angelo Moratti sfrega un sogno. Gli occhi luccicano parecchio, a contemplare lo sfrigolio di una cometa appena apparsa nei cieli calcistici e destinata a lasciare una scia profonda dietro di sé. In Svezia, nel 1958, si sta stiracchiando il mito di Edson Arantes do Nascimento. D’un tratto la gente accalcata nei bar italici molto più che nel glorioso salotto morattiano, s’accorge che c’è calcio – ed è luminescente – anche oltre i confini nazionali. Che poi, noi, a quei mondiali lì non ci partecipiamo neanche. Forse meglio così, a conti fatti. Chi vorrebbe trovarselo davanti un indemoniato Pelé diciottenne?
Le pupille di mezza Europa si dilatano. I consigli direttivi sbracano, letteralmente, sparando cifre mostruose per l’epoca. Moratti però è il più svelto di tutti. Beffa la concorrenza con cinica disinvoltura, alzando la cornetta e digitando il numero degli uffici del Santos, detentore del succulento cartellino. È una telefonata cortese e pragmatica, che esita in un fecondo scambio di documentazione. Pelé firma per l'Inter ed è pronto a trasferirsi a Milano, per indossare il nerazzurro.
Un sogno appannato che diventa improvvisamente lucido. Troppo irreale per essere vero: quando tutto sembra fatto i tifosi del Santos, sobillati dalla notizia diffusa copiosamente, si riversano sotto la sede del club, reclamando la testa del presidente. Nell’intero stato di San Paolo scoppia una protesta inizialmente effervescente, dunque terrificante. La dirigenza bianconera viene additata e minacciata da una selva di persone inferocite. Alzano il telefono dal Brasile: “Ci scusi tanto signor Moratti, ma qua se vendiamo Pelé ci ammazzano”. Il patron della Beneamata comprende, anche se deglutisce amaro. Sfuma così quello che, con ogni probabilità, poteva essere il più incredibile colpo di mercato della storia interista.
Eppure, il flirt tra Pelé e Milano non si è dissolto. Fluttua ancora in sottofondo, in attesa di indovinare il tempismo giusto per consumarsi. Una seconda occasione si affaccia negli anni Sessanta, stavolta sull’altra sponda calcistica cittadina. Il Milan è in cerca di un attaccante ed il nome dell’asso brasiliano – per sua stessa ammissione, molti anni più tardi – finisce presto in cima al mucchio. È una trattativa veloce, ma fragile. Il contendente è Amarildo, il tizio che l’ha sostituito ai mondiali cileni del ’62, stizzendosi non poco: “Non sono la riserva di Pelé, io sono Amarildo”. Il neo presidente rossonero, Felice Riva, se ne è invaghito: ha segnato, del resto, 136 reti in 231 apparizioni con il Botafogo.
Pelé però, calcisticamente inarrivabile all’esplosiva età di ventitré anni, è sinceramente tutt’altra cosa. Se ne discute per un po’, ma alla fine la trattativa avvizzisce: più facile arrivare ad Amarildo che, come in nazionale, diventa il rimpiazzo di O Rey.
Così il più grande dieci della storia calcistica brasiliana – e
probabilmente di quella mondiale – diventa il maggiore dei milanesi mancati. Lasciando per sempre il dubbio, magnifico e malinconico al contempo, tipico delle cose che potevano essere e non sono mai state.
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