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Perché l’Arabia non è la Cina e può davvero comprarsi il calcio

Nonostante Ceferin (Uefa) ostenti indifferenza, la sfida lanciata dall'Arabia Saudita al mondo del calcio è ben più seria di quella arrivata a suo tempo dalla Cina. A giudicare da come è andata nel golf, il fondo PIF può davvero comprarsi il calcio mondiale

Perché l’Arabia non è la Cina e può davvero comprarsi il calcio
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Un’altra estate, un altro tormentone nel mondo del calcio. L’universo pallonaro è scosso da un nuovo spauracchio, la ricchissima Pro League saudita ed i suoi stipendi fuori misura in grado di attirare talenti assoluti in un campionato del quale, francamente, neanche gli esperti avevano mai sentito parlare. Non è la prima volta che il calcio teme l’impatto di una superpotenza economica ma, forse, stavolta il rischio andrebbe preso molto più sul serio. Se gli assalti degli americani e, qualche anno più tardi, dei cinesi sono stati respinti senza grossi problemi, resistere all’avanzata della SPL potrebbe rivelarsi più complicato. Nonostante il presidente dell'Uefa Ceferin abbia fatto spallucce qualche giorno fa, facendo il parallelo proprio con l’ambiziosa Super League cinese, la faccenda è più ingarbugliata. Vediamo quindi perché, stavolta, l’assalto alla diligenza del calcio europeo potrebbe andare a buon fine.

Un campionato "aggiustato"

Senza che nessuno se ne fosse mai accorto, la Pro League saudita non è nata ieri, anche se ci sono voluti ben 31 anni dalla fondazione nel lontano 1976 prima che si passasse al professionismo. Gli appassionati di calcio asiatico avranno forse sentito parlare delle squadre più blasonate, dall’Al Hilal di Riyad all’Al Ittihad della seconda città più importante del regno, Jedda, ma fino al 30 dicembre 2022 nessuno aveva mai preso questo campionato minore sul serio. Firmare un contratto con uno dei giocatori più grandi di tutti i tempi, Cristiano Ronaldo, ha catapultato la SPL nell’olimpo dei social media, facendo fare incetta di contatti e clic alla seconda squadra della capitale, l’Al Nassr. Lo stipendio di CR7 è stato forse il segnale che ha fatto drizzare le orecchie a campioni e procuratori: oltre 200 milioni di dollari, esentasse. Chi ha qualche giro attorno al sole alle spalle potrà far notare come cose del genere sono già successe, come negli anni ‘70, quando campionissimi come Pelè, Beckenbauer ed il nostro Chinaglia andarono a passare gli anni del tramonto in America.

Liedholm Pele

Il paragone, però, diventa subito poco rilevante. Qualche giorno fa, il ricchissimo fondo sovrano saudita, il Public Investment Fund, che gestisce una ricchezza talmente enorme da far girare la testa, ha preso il controllo delle quattro squadre più importanti del paese, assegnandone altre quattro ad imprese legate in qualche modo alla famiglia reale. Il resto delle squadre del campionato saudita farà lo stesso a breve, una vera e propria nazionalizzazione fatta d’imperio per far entrare la SPL nella top 10 dei campionati più competitivi al mondo. Per far capire che facevano sul serio, il giorno dopo l’annuncio, il Pallone d’Oro in carica, Karim Benzema, ha annunciato che avrebbe lasciato il Real Madrid per giocare all’Al Ittihad. Lo stipendio? Simile a quello di CR7, ci mancherebbe.

Gli esperti di calciomercato si sono sbizzarriti e, a quanto pare, le squadre saudite si sarebbero scatenate, offrendo stipendi miliardari al campione d’Europa Bernardo Silva o al tecnico della Juventus Max Allegri. Se l’allenatore livornese, almeno per il momento, ha cortesemente declinato l’offerta, altri campioni come il roccioso centrocampista del Chelsea e della Francia Ngolo Kante, sono stati ben lieti di andare a far compagnia, in questo caso, all’amico Benzema. Questa shopping spree finanziata dalle profondissime tasche del fondo PIF sembra estemporanea ma, a sentire gli esperti, sarebbe un piano al quale la famiglia reale saudita stava lavorando da anni. Il principe ereditario Mohammed bin Salman si sarebbe accorto che, nonostante il paese vada pazzo per il calcio, la qualità media era troppo bassa per attirare spettatori nelle partite normali. Se gli incontri di cartello attirano folle oceaniche, il resto è giocato in stadi praticamente vuoti.

Al Hilal Real Madrid

L’idea di base è molto semplice: invece di avere una, due squadre top, finanziare pesantemente tutte le squadre consentirà di costruire stadi innovativi, offrire un prodotto televisivo top in un mercato affamato di contenuti e rendere il campionato gestito in maniera finalmente professionale. I problemi non mancano, come i dubbi sulle probabilità di successo di un progetto fin troppo ambizioso. La famiglia reale è ansiosa di ospitare almeno 20 eventi sportivi top nei prossimi 7 anni e punta senza nemmeno nascondersi troppo verso l’organizzazione del mondiale di calcio nel 2030 o, al massimo, nel 2034. Il parallelo col Qatar è inevitabile ma le differenze non mancano. L’Arabia Saudita è un paese molto più grande, più ricco e con una popolazione che va davvero pazza per il calcio. Gli ultras delle squadre di vertica sono molto organizzati ed hanno un seguito social mostruoso ma il cammino da fare è lungo e complicato. In un’intervista concessa al sito specializzato The Athletic, un esperto di cose saudite ha fatto notare come, nonostante i grossi passi avanti negli ultii anni, alcuni stadi siano occupati in media solo per il 25%, una cifra che impallidisce a confronto con i campionati europei.

Un azzardo multimiliardario

L’idea di base dietro alla strategia del principe saudita è quella già vista in altri progetti colossali che sono in via di costruzione nel paese asiatico: if you build it, they will come, se costruisci un’infrastruttura top a livello globale, gli investitori e la gente di talento verranno di sicuro. In passato questo modello non ha avuto un gran successo, a dire il vero. Vista la mancanza di personale specializzato, gli ospedali sauditi sono stati mandati avanti per decenni attirando medici di livello da altri paesi arabi o dall’Europa ma, normalmente, rimanevano al massimo un paio di anni. Gli stipendi e la mancanza di tasse erano invitanti ma vivere in un paese dove la sharia regna sovrana e, francamente, di sera non c’è molto da fare a parte andare in un ristorante costosissimo non è proprio il massimo. Il confronto tra le città super-tecnologiche ed il resto del paese, ancora quasi a livelli pre-industriali, è devastante. James Dorsey, senior fellow del Middle East Institute all’Università Nazionale di Singapore, sembra però convinto della bontà del piano saudita.

Al Nassr

L’ambizione della famiglia reale saudita è di consolidare il regno come una potenza regionale in grado di dominare il Medio Oriente. Lo sport, per loro, è solo uno dei mezzi per arrivare a questo obiettivo. Visto che il Qatar e gli Emirati Arabi sono partiti prima, per diventare la destinazione top per lo sport nell’area dovranno agire in maniera aggressiva”. I rischi, ovviamente, non mancano, specialmente se i grandi nomi in arrivo nella Pro League saranno tutti, più o meno, alla fine di una lunga e prestigiosa carriera. La nazionale saudita ha fatto bene al mondiale invernale, mostrando alcuni talenti interessanti, ma da qui a fare concorrenza a campionati tradizionalmente dominanti come la Serie A o la Liga spagnola il passo è enorme.

A sentire Dorsey, però, le ragioni sarebbero più politiche che altro: investire nello sport avrebbe un significato molto significativo anche per la tenuta sociale di un paese in forte evoluzione, dove le spinte per la modernizzazione e per la fine del modello autocratico che vede la famiglia reale dominare economia e politica in maniera totalitaria si stanno moltiplicando. “Investire nello sport è una scelta saggia. In una regione dove la religione è così importante, lo sport è forse l’unico altro modo per interagire in maniera puntuale con un ampio spettro di fasce sociali. Questo, ovviamente, è un obiettivo molto desiderabile per chi voglia mantenere intatto lo status quo”. Le ragioni, poi, sarebbero anche legate all’obiettivo generazionale che si è posta la famiglia reale saudita: sganciare l’economia del regno dall’assoluta dipendenza dall’esportazione delle immense riserve petrolifere che si trovano nel sottosuolo della penisola arabica.

CR7 Al Nassr

Se il Qatar ha puntato forte sul commercio e sull’innovazione, il piano saudita è forse ancora più ambizioso, con città futuristiche e vagamente distopiche che, nelle loro intenzioni, dovrebbero attrarre il meglio del meglio da ogni parte del pianeta. Visto che di non solo tecnologia e stipendi esentasse vive l’uomo, fornire come distrazione un campionato di livello assoluto, con talenti al vertice della loro professione, sarebbe un incentivo niente male. Un altro problema che si spera di affrontare con questa operazione sarebbe anche di arginare la diffusione del diabete e dell’obesità, che coinvolge oltre il 60% di una popolazione che in gran parte è sotto i 35 anni. Tutto molto bello, tutto molto ragionevole, ma la domanda vera è un’altra: spendere decine di milioni per attirare grandi nomi i cui migliori anni sono chiaramente alle loro spalle sarà davvero il modo migliore per trasformare l’Arabia Saudita?

Perché la Cina ha fallito

Gli scettici, ovviamente, ricordano come, dal 2015 al 2017, tutti nel mondo del calcio fossero convinti che il futuro dello sport più popolare del pianeta fosse sì in Asia, ma molto più lontano, all’ombra della Grande Muraglia. I paralleli non mancano: anche in questo caso l’autocrate al potere, l’ineffabile presidente Xi Jinping, aveva dichiarato che la Cina avrebbe fatto concorrenza agli Stati Uniti e all’Europa nello sport, tanto da rendere la nazionale cinese una superpotenza a livello planetario. Visto che nell’ex Celeste Impero niente si muove se il sovrano non dà il proprio beneplacito, i ricchi proprietari delle squadre della Super League si scatenarono: squadre fino a quel momento sconosciute come il Jiangsu Suning, il Guangzhou Evergrande o lo Shanghai SIPG spesero cifre pazzesche per fare incetta di brasiliani di talento, arrivati da squadre top europee come Chelsea, Liverpool o Atletico Madrid.

Cannavaro Guangzhou

Antonio Conte, che all’epoca allenava i Blues di Abramovich, disse che la CSL era “un pericolo non solo per il Chelsea ma per tutti i club”. Le spese pazze continuarono per qualche tempo, tanto da rendere l’azzurro Graziano Pellè il settimo giocatore più pagato al mondo e da offrire ben 100 milioni di Euro all’anno a Cristiano Ronaldo, ma la bolla implose poco dopo in maniera altrettanto spettacolare. Il segnale, in maniera tipicamente cinese, arrivò ancora dall’imperscrutabile presidentissimo, che durante una conferenza stampa disse che spendere così tanto per generi di lusso stranieri non era “per niente cinese”. Il segnale fu recepito altrettanto in fretta, facendo implodere di colpo una delle più enormi bolle speculative della storia del calcio.

Eppure, nonostante sia rassicurante pensare che l’azzardo dei sauditi farà la stessa, ignominiosa fine dell’esperimento della CSL, le differenze sono francamente enormi. Il primo problema è che i circenses forniti alla sterminata popolazione cinese non si sono rivelati particolarmente efficaci. Il calcio era popolare con la crescente classe media ma in termini di cultura calcistica e di tifo, la distanza con l’Europa e il Sudamerica era abissale. I grandi campioni erano seguiti da fan adoranti, non in maniera diversa da quanto succede per le star del cinema o della musica, ma gli stadi erano fin troppo silenziosi. A parte tutto, le partite della CSL erano ignorate da media e tifosi occidentali per una ragione molto semplice: si tenevano in orari assurdi per colpa del fuso orario. Andare a giocare in Cina voleva dire scomparire dal mirino dei tifosi e degli esperti di calcio mondiali. Per quanto gli stipendi fossero interessanti, giocare nella CSL era più o meno l’equivalente della morte sociale per un giocatore di livello. Le motivazioni alle spalle della mossa, poi, non potrebbero essere più diverse.

Tevez CSL

La Cina non vedeva la CSL come un tentativo di sportswashing, ovvero usare lo sport per far dimenticare abusi, massacri o problemi ambientali: hanno metodi molto più diretti ed efficaci per far dimenticare di essere, ad esempio, il paese che inquina di più al mondo. Le spese pazze, poi, furono dovute all’entusiasmo eccessivo dei ricchi proprietari dei club, ansiosi di trarre vantaggi per le loro aziende dal mettere in pratica i sogni del monarca Xi. Col tempo, poi, il Partito Comunista Cinese iniziò a sospettare che i ricchissimi contratti fossero un modo di esportare buona parte dei profitti delle aziende all’estero, aggirando i controlli sulle valute e, magari, pagare meno tasse. Quando, poi, si iniziò a capire che la crisi immobiliare avrebbe potuto trascinare all’inferno giganti come Evergrande, il PCC entrò a gamba tesa, costringendo tutti ad una precipitosa frenata. Xi Jinping, visto che non si era esposto in maniera personale ma aveva solo indicato un obiettivo lontano, da ottenere nel giro di decenni, ha potuto cambiare rotta senza rischiare in proprio. Mohamed bin Salman è in una situazione molto diversa: perdere la faccia nel mondo arabo è peggio che morire. L’esperimento, in questo caso, deve funzionare, costi quel che costi.

Il modello? Il takeover del golf

Ora che abbiamo stabilito che l’Arabia non è la Cina, ha davvero senso continuare a preoccuparsi che la famiglia reale saudita voglia davvero puntare a comprarsi il calcio? Almeno a giudicare dall’esito dello scontro avvenuto in un altro sport, magari più di nicchia ma altrettanto ricco, i sauditi non scherzano per niente. Pochi giorni fa, dopo uno scontro durato anni e defezioni di nomi di assoluto talento, la frattura tra i due tornei rivali nel mondo del golf si è ricomposta di colpo, ponendo fine ad una faida che rischiava di far esplodere uno degli sport più seguiti al mondo. In Italia è forse poco comprensibile, ma nei paesi anglosassoni ed in Giappone i talenti del golf professionistico sono nomi di casa, capaci di attirare sponsorizzazioni milionarie e risiedere stabilmente nell’elenco degli sportivi più pagati al mondo. Senza bisogno di scendere troppo nei dettagli, partiamo dalla fine: in maniera del tutto improvvisa, la Professional Golf Association ha annunciato di aver raggiunto un accordo con il LIV Tour e un altro torneo professionistico per “unificare lo sport” e porre fine ai divieti che impedivano a chi avesse accettato l’offerta del ricco tour asiatico di partecipare ai tornei più importanti.

Dustin Johnson LIV

L’incontro chiave si sarebbe tenuto qualche mese fa a Venezia, segnando l’inizio di una nuova era nel golf. Cosa c’entra questo con il calcio? Parecchio, visto che il LIV Tour è proprietà anch’esso del famigerato fondo PIF. L’accordo non è ancora del tutto finalizzato e ci sono ancora molti campioni che si sono schierati apertamente contro di esso, dicendo che sarebbe una “iattura per lo sport”, ma, a questo punto, le cose sembrano più o meno fatte. L’organizzazione dominante dello sport, il ricco e tradizionale PGA Tour, è stato costretto a scendere a patti con il nuovo tour che, in maniera tanto sfacciata quanto poco diplomatica, era riuscito a strappargli alcuni tra i talenti più grandi, a partire dal famoso Greg Norman. Per riportare il tutto in termini a noi più familiari, sarebbe come se Infantino e Ceferin fossero stati costretti a scendere a patti con la Superlega, alzando più o meno bandiera bianca.

In realtà tutti sembrano contenti: il PGA Tour riceverà un pacco di milioni dal fondo PIF, formando una partnership tra i tre tornei principali al mondo e ponendo fine alla lunga faida che aveva messo a rischio il futuro del golf. Cosa possiamo imparare da quello che, secondo molti, è forse l’unico caso di takeover ostile nel mondo dello sport professionistico? Prima di tutto che i soldi fanno tutta la differenza. Il PGA Tour era chiaramente a caccia di fondi: ne aveva bisogno per alzare il livello dei montepremi e resistere ai lucrosi contratti che il LIV garantiva a chi accettava di giocare in Arabia. Dopo la crisi dovuta alla pandemia, il PGA Tour era stato costretto ad attingere alle enormi riserve finanziarie messe da parte negli anni di vacche grasse, ma la situazione era chiaramente insostenibile. Quando le pay tv hanno deciso di rivedere al ribasso i diritti televisivi per un tour che aveva perso alcuni dei campioni più amati dal pubblico, la situazione è precipitata in fretta. Il piano del tour americano era simile all’atteggiamento tenuto dalla UEFA contro la Superlega: muro contro muro, massima pressione sui giocatori per evitare defezioni e montagne di carte bollate da scagliare contro i rivali.

MIckelson LIV

L’idea era che, prima o poi, i sauditi si sarebbero stancati di perdere soldi e avrebbero chiuso baracca e burattini. In questo caso, invece, è stato il PGA Tour a dover accettare un compromesso umiliante. La situazione non è così diversa come potrebbe sembrare: il PGA Tour, come FIFA e UEFA, è un’entità non profit, con esenzioni fiscali che gli hanno consentito di accumulare ingenti riserve finanziarie. Eppure, quando i sauditi sono partiti all’assalto, strappando campioni su campioni, è stato costretto a scendere a più miti consigli. Il nuovo tour successivo all’accordo non avrà più esenzioni, visto che sarà una normale compagnia, il che ha vantaggi e svantaggi. C’è chi dice che, in realtà, sarebbero stati i sauditi a cercare un accordo, visto che i tornei del LIV perdevano milioni su milioni ma la sostanza non cambia. Il panorama di uno sport ricco e molto popolare è cambiato radicalmente dopo che il fondo PIF e la famiglia reale saudita sono partite all’assalto. Il calcio potrebbe non essere così speciale come molti di noi si ostinano a credere...

I rischi per i calciatori

Spettatori interessati, ovviamente, i campioni ed i loro procuratori, che si staranno fregando le mani al pensiero di ricevere stipendi e commissioni mostruosi. Eppure, anche per questi strapagati professionisti, i rischi non mancano. Una cosa è accettare di fare da volto ad una campagna per promuovere il turismo nella penisola arabica; tutt’altra cosa decidere di legarsi mani e piedi ad un regime fermamente nella lista nera delle associazioni che si occupano di diritti umani. Lionel Messi, ad esempio, è stato ben lieto di fare pubblicità sui social alle bellezze dell’Arabia Saudita ma ha respinto al mittente l’offerta pazzesca ricevuta dalla SPL, preferendo passare gli ultimi anni della sua incredibile carriera al sole della Florida, anch’esso uno stato che non ha imposte sul reddito. La riluttanza di Allegri e di altri campioni nel seguire l’esempio di CR7, Kantè e Benzema non sarebbe così peregrina come sembra. D’accordo, gli stipendi offerti sono mostruosi ma il rischio di fare la fine di Hulk, costretto a tornare con la coda tra le gambe nel Brasilerao per riconquistare un posto nella Seleçao, è molto reale. Un altro fattore non insignificante, poi, è il fatto che la tenuta del sistema legale saudita sia alquanto discutibile. Dopo aver lanciato l’allarme qualche mese fa, la FIFPRO, il sindacato europeo dei calciatori professionistici, ha rilanciato l’allarme, sconsigliando vivamente i propri associati dall’accettare le offerte presentate dai club della Pro League saudita.

Grabban Spurs Bournemouth

A quanto pare, infatti, i club sauditi non sarebbero particolarmente affidabili quando si tratta di rispettare alla lettera le clausole dei contratti coi giocatori, tanto da costringere 50 di loro negli ultimi 12 mesi a rivolgersi all’arbitrato messo a disposizione dalla FIFA per risolvere le controversie coi rispettivi club. Il caso dell’ex attaccante del Nottingham Forest Lewis Grabban, arrivato all’Al Ahly l’estate scorsa, ha fatto notizia: prima di esser scaricato senza troppe cerimonie dal club saudita, non gli sarebbero stati pagati circa 400000 dollari tra stipendi e bonus. L’arbitrato ha dato ragione al calciatore inglese, costringendo il club a pagare un totale di 1,2 milioni di dollari per aver violato i termini del contratto. Il caso di Grabban non è isolato, visto che il club è stato trascinato in tribunale quattro volte in un anno e mezzo, venendo costretto a saltare due sessioni di mercato. La FIFPRO, poi, ha fatto notare come in Arabia Saudita non sia presente alcun sindacato dei calciatori, il che lascerebbe da soli quei professionisti magari meno famosi di Ronaldo o Benzema. Il campionato saudita non è l’unico ad essere entrato nella lista nera del sindacato, che infatti sconsiglia ai propri associati di firmare contratti con squadre di Turchia, Romania, Algeria e Cina.

Messi

Probabilmente le ragioni che hanno spinto la Pulga a preferire l’Inter Miami sono altre, come ad esempio il rischio di esser preso di mira per l’associazione con un regime che, specialmente in Yemen, è accusato di veri e propri crimini di guerra. Eppure, nonostante tutti i caveat del caso, saranno molti i talenti ad accettare di passare qualche anno nel deserto per la gioia dei maniaci del calcio sauditi. Basterà per mettere a rischio il dominio dei campionati tradizionali e delle certo non impeccabili organizzazioni che li controllano? Le probabilità che finisca come nel golf non sono molte, ma le cose potrebbero cambiare in fretta.

Quando alle spalle hai centinaia e centinaia di miliardi e riserve di petrolio colossali, niente è davvero impossibile.

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