Cultura e Spettacoli

La camisa negra al Festivalbar «Politica? Io canto l’amore»

Paolo Giordano

nostro inviato a Barcellona

Le risposte, per favore. Prima di spiegarci perché - perché lui è tra i cento uomini più influenti del mondo e pure tra i cinquanta più belli - stavolta Juanes, qui al bar di un hotel di Barcellona, arriva con una camiciola che sarà pure stropicciata però è talmente verde che almeno risponde subito alla prima domanda. Dunque: con la pietosa polemicuccia estiva, che il sito Indymedia ha aizzato per la gioia della sinistra no global, il colombiano Juanes non c’entra nulla e la sua canzone La camisa negra - che è stata un tormentone dell’estate - non è uno stantio saluto fascista ma, più semplicemente, «un brano d’amore con un testo persino ironico» se non altro perché in castigliano «camisa» significa maglietta e non camicia. Certo, vagli poi a spiegare, a questo ragazzotto buono come il pane, che solo in Italia si perde tempo con tiritere del genere: almeno a Santo Domingo la canzone è stata bandita dalle radio perché nel testo spunta la parola «difunto», che in gergo colombiano significa quella cosa là. Infatti, dice lui, «non ci posso credere, tanto più che io non sto da nessuna parte politica». Stasera invece sarà all’Arena di Verona per la finale del Festivalbar, che è poi il veicolo giusto per quest’artista di lunga gittata, definito dagli europei «il Bono latino» e dagli americani «lo Springsteen sudamericano» a dimostrazione che i paragoni servono a tutto tranne che a dare una risposta.
Juanes, a chi vuole assomigliare?
«Non voglio imitare nessuno. Bono è un grande, ma tutt’al più mi piacerebbe duettare con lui. In spagnolo però».
Quindi non vorrebbe fare come Ricky Martin o Shakira, che hanno scelto lo «spanglish», cioè un miscuglio tra inglese e spagnolo?
«No, io penso solo in spagnolo e non posso cantare in un’altra lingua. Però sono amico di Shakira, che è colombiana come me. Tutti e due abbiamo lavorato duro per anni e solo ora ci ritroviamo davanti tante porte aperte».
Il suo cd Mi sangre ha già venduto milioni di copie, Time l’ha inserita tra i cento più influenti del mondo. People tra i cinquanta più belli.
«Ma io non mi sento un sex symbol, anzi. Quando sono in giro non vedo l’ora di tornare da mia moglie Karen e dalle mie figlie Luna e Paloma».
Per forza, loro vivono a Medellin, che decisamente non è un posto tranquillo.
«In realtà abbiamo casa a Miami, in Colombia vivono solo i miei genitori. Dove sono nato io è molto difficile sopravvivere: ci sono i narcos, i ribelli. La Colombia vive da 40 anni in un clima di terrore, ma il mio popolo è ottimista, anche se non è facile».
Quincy Jones, che è un guru della musica, ha detto: «Se c’è un artista capace di parlare a tutti è Juanes».
«Forse dipende dal fatto che tutte le canzoni che scrivo parlano della realtà. Non di fantasie o speranze o sogni. Ma di cose che accadono tutti i giorni. Questo mi aiuta a essere vicino alla gente e a farmi capire un po’ in ogni parte del mondo senza parlare in inglese».
Infatti qui al Palau de Sant Jordi ha cantato davanti a quindicimila persone in festa.
«Sarà banale da dire, ma io amo la musica e sul palco ho sempre la stessa energia, anche se ogni sera canto le solite canzoni. Se non avessi avuto questa passione, forse avrei fatto altro nella mia vita. Invece nel 1998, quando si è sciolto il gruppo heavy metal in cui cantavo, gli Ecchimosis, sono subito partito per Los Angeles.

Se la gente mi capisce, e io capisco la gente, è perché so che cosa vuol dire faticare per inseguire un sogno».

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