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Campanile istrionico: fare l’amore non è proprio peccato

Vito Molinari regista del collage realizzato sui testi dell’umorista

Carlo Faricciotti

Se n’è andato quasi trent’anni fa (il 4 gennaio del 1977) ma Achille Campanile, classe 1899, scrittore, drammaturgo, umorista, giornalista, soggettista cinematografico, pioniere della critica televisiva (sull’Europeo, dal 1958 al 1975), continua a vivere tanto in libreria quanto, soprattutto, sulle tavole del palcoscenico, mosca bianca in un panorama, quello della drammaturgia nostrana del Novecento, mai del tutto liberatosi dall'enorme mole di Luigi Pirandello.
S’intitola infatti Far l’amore non è peccato (sottotitolo: Ovvero, la crisi del teatro risolta da me) il collage di testi dell’autore romano realizzato da uno dei suoi cultori, Vito Molinari, in scena al Teatro Olmetto fino al 29 gennaio (spettacolo inserito in «Invito a teatro»).
Collage, perché in vita Campanile - dandy con monocolo per lunghi anni, barba lunga e fluente e aspetto da patriarca negli ultimi tempi - scrisse qualcosa come 2.128 testi teatrali, ma di questi solo una decina rispettando la canonica formula dei tre atti: la maggior parte dei copioni, chiamiamoli così, vive di un rapidissimo scambio d’opinioni e pensieri, le celebri Tragedie in due battute (un esempio tra tanti: «Il medico, sulla soglia della camera del paziente: Disturbo?. Il paziente: Gastrico»).
Un umorismo che dopo la morte di Campanile sarebbe stato definito «demenziale» e che negli anni Cinquanta del secolo scorso faceva pensare a Ionesco e al teatro dell’assurdo - somiglianza subito strapazzata da Campanile: «Io ho scritto le battute di Ionesco quando Ionesco non era ancora nato».
Prodotto dall’Associazione Teatrale Duende e interpretato da Eugenio de’ Giorgi, Elena Boat, Federica Toti, Alberto Faregna e Roberto Recchia, lo spettacolo, nelle parole dello stesso Molinari, ci mostra come «i personaggi di Campanile, con candore estremo, nel modo più semplice e naturale possibile, scardinano il quotidiano rovesciando l’ordine logico, fanno «pericolare pericolosamente» il baricentro di situazioni banali ma, come in un gioco di alto equilibrismo, ne escono indenni, in un mondo alla rovescia, con paradossi umoristici, comicità surreale.
La costruzione dialogica è così costruita, miracolosamente, come una piramide rovesciata, ma in perfetto equilibrio instabile, in una lingua italiana purissima, raffinata, per un effetto finale comicissimo. Se l’effetto finale è umoristico, induce al riso («l’umorismo è il solletico del cervello» diceva Campanile), i mezzi per raggiungerlo sono raffinatissimi: il linguaggio più piano e semplice possibile, il più normale, il più quotidiano, lontano da orpelli e ricercatezze letterarie, ma dotato di grande capacità evocativa.
Dopo il riso, infatti, ci rendiamo conto che Campanile, abile e sornione, ci ha attirato in un universo assurdo e privo delle solite, rassicuranti coordinate quotidiani. Il trucco, con Campanile, è che non ci sono trucchi: è lo spettatore, o il lettore (per Campanile «un personaggio immaginario creato dalla fantasia dello scrittore»), che si fa irretire e coinvolgere, non sono necessarie allusioni, artifici, allegorie.


Difficile da inquadrare nelle categorie accademiche - di lui Silvio D’Amico disse «O è un pazzo o è un genio» - Campanile ha spesso trovato in Molinari il suo regista ideale. In tv e in teatro, ma anche in radio, Molinari è sempre stato uno specialista dell’umorismo e del varietà.

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