Quando un fatto accade una volta è un episodio. Quando accade due volte è una coincidenza. Quando si ripete tre volte, non è più una statistica: è un sistema.
Negli ultimi mesi l'Italia ha visto tre vicende simboliche trasformarsi da grandi occasioni nazionali in campi minati giudiziari. A Milano, sotto inchiesta finiscono alcuni dei più noti architetti e operatori immobiliari che hanno letteralmente cambiato il volto della città, rendendola finalmente competitiva sul piano internazionale. Sul Ponte sullo Stretto, la Corte dei Conti interviene contro l'impulso politico di Matteo Salvini, che rivendica la necessità di recuperare decenni perduti in infrastrutture e visione strategica, e l'opera viene di fatto nuovamente sospesa o rallentata sotto il peso degli atti e dei rilievi. Sul fronte finanziario, la magistratura accende i riflettori sulle dinamiche che riguardano Mediobanca, Generali e Mps, con indagini che coinvolgono protagonisti della finanza come Caltagirone e Delfin e che arrivano a lambire perfino il Ministero dell'Economia, come se ogni assetto di governance dovesse essere prima giudicato alla luce del sospetto e solo dopo alla prova dei fatti.
Tre storie diversissime, un copione identico. Tutte sotto inchiesta, bloccate, rallentate o avvelenate da una narrazione giudiziaria diventata nel tempo egemone. Non si tratta di negare il diritto-dovere di indagare, ma di osservare un dato macroscopico: in nessuno di questi casi è chiarissimo quale sia il danno sociale concreto che si intende reprimere; è invece chiarissima la narrazione che si impone sull'opinione pubblica. Un racconto cupo, insinuante, in cui ogni fatto è sospetto, ogni gesto interesse, ogni parola intercettata è colpevolezza anticipata.
Si afferma così una visione tossica del mondo: l'impresa è avidità, la politica è intrigo, la finanza è predazione. Il merito diventa un travestimento della disuguaglianza, lo sviluppo una parola sporca, il successo una colpa da espiare. Milano non è più simbolo di crescita e attrazione di capitali, ma teatro di compromessi inconfessabili. Il Ponte non è un'opera di sistema, ma l'ennesimo sospetto edilizio elevato a caso morale. Le grandi istituzioni finanziarie non sono leve strategiche della stabilità nazionale, ma scatole opache da scardinare con il linguaggio dell'allusione.
È una cultura del sospetto che ha smesso di essere controllo per diventare atmosfera. Un clima in cui tutto ciò che si muove viene messo sotto processo prima ancora di essere compreso. Un'impostazione della giustizia che, più che perseguire i reati, finisce per costruire cornici narrative. E in quelle cornici il Paese è sempre imputato.
Poi ci si stupisce se le opere pubbliche impiegano il doppio del tempo rispetto al resto d'Europa. Se il capitale preferisce altri porti. Se i grandi cantieri finanziari trovano cittadinanza altrove. E soprattutto se tanti giovani - i più preparati, i più ambiziosi - decidono che l'Italia non è il luogo giusto per rischiare, investire, costruire.
Si parla molto di riforma della giustizia, ma la riforma più urgente è culturale. Dalla stagione di Mani Pulite in poi, sul Paese si è stesa una coltre morale che ha trasformato il principio del controllo in una pedagogia del sospetto. Come se l'agire fosse di per sé peccato, e la colpa dovesse essere presunta fino a prova contraria.
Una democrazia liberale, però, funziona all'inverso: la libertà è il punto di partenza, non la concessione finale. Il merito è un valore, non un indizio. Il successo è legittimo, non un'anomalia da delegittimare.
Finché non si tornerà a distinguere tra legalità e moralismo, tra indagine e sospetto sistemico, tra vigilanza e paralisi, il Paese continuerà a vivere sotto tutela.
E finché la politica rinuncerà a raccontare l'Italia come una nazione che costruisce anziché sospettare, governa anziché delegare, immagina anziché inquisire, allora la stagnazione non sarà un incidente: sarà una scelta collettiva mascherata da virtù.