Cancellare gli Albi per fare ordine nelle professioni: un gesto coraggioso

Appena si è sparsa la voce che il governo stesse vagheggiando una misura di liberalizzazione degli ordini professionali, i diretti interessati hanno cominciato a innalzare barricate preventive. E dire che il ministro Tremonti, al quale è attribuito lo schema di decreto titolato «liberalizzazioni per lo sviluppo» ce l’ha messa tutta per restare nel vago e nell’indistinto.
Per quello che si è riuscito a sapere, la norma appare talmente complessa e fumosa che in molti hanno pensato a un ballon d’essai, tanto per vedere l’effetto che fa e poi semmai scoprire le carte vere. E l’effetto ovviamente c’è stato.
Tipica la reazione del presidente del Comitato unitario delle professioni, Marina Calderone: «Il Paese ha bisogno di riforme strutturali che interessino i reali bisogni dei cittadini. Lo sforzo del ministro dovrebbe concentrarsi su altri settori e non sulle libere professioni che hanno mostrato dinamicità anche di fronte ai ritardi del Paese». Insomma è la sindrome di Nimby (Not in my back yard) trasferita dall’ambito delle discariche e delle centrali nucleari a quello delle liberalizzazioni: vanno benissimo ma non per noi!
Vorremmo invece suggerire al ministro Tremonti ormai incagliato nell’inestricabile dilemma tra coraggio e prudenza, di scegliere senza indugio il primo a discapito della seconda, almeno in questo caso dove i cordoni della borsa non hanno bisogno di essere mollati.
È infatti giusta e liberale l’idea che anche per le libere professioni, per quanto ammantate da un polveroso sussiego intellettuale, valga il principio costituzionale della libertà d’impresa. Da anni infatti le relazioni dell’autorità Antitrust, studi universitari, rapporti statistici, mostrano come le barriere d’accesso alle professioni, attraverso iscrizioni agli albi, esami di Stato, vincoli tariffari, limiti ai rapporti interdisciplinari, divieto di pubblicità comparativa, provochino una drastica perdita di efficienza del sistema, maggiori costi per i cittadini e un ridotto tasso di innovazione. È facile comprendere come le gerontocrazie, spesso dinastiche, che dominano i vertici degli Ordini abbiano tutto l’interesse a frenare l’arrivo di giovani professionisti, più aggiornati, più tecnologicamente muniti e più disponibili alla competizione tariffaria per farsi strada nel lavoro.
Ovviamente la risposta degli Ordini a questi rilievi è sempre la stessa da anni: il controllo sulla deontologia, la qualità delle prestazioni, i pericoli di una «deregulation» che è per definizione sempre «selvaggia», il valore dell’intelletto che non si può vendere un tanto al chilo. Si tratta di una difesa agguerrita fatta di molta retorica pubblica e una fortissima lobby dietro le quinte. Miscela rivelatasi efficace se anche la cosiddetta riforma Bersani (ricordate la lenzuolata?), peraltro piuttosto blanda, è stata, negli anni, riassorbita dalle sabbie mobili corporative.
Ma alla fine potrebbe rivelarsi la difesa del nulla, se sono veri i dati del Miur, che mostrano come gli aspiranti professionisti siano calati del 20 per cento negli ultimi 5 anni. Tra i laureati che hanno scelto di non seguire la strada dell’iscrizione all’albo spiccano gli agronomi con un calo del 61 per cento, ma anche architetti e ingegneri, scendono rispettivamente del 36 e del 31 per cento. Insomma tanta lena per fortificare la cittadella delle professioni per poi accorgersi che nessuno ci vuole più entrare.
Un ultimo suggerimento al ministro Tremonti: non lesini coraggio a menar fendenti anche con l’Ordine dei giornalisti.

A parte la Fnsi che ieri, con il suo segretario Franco Siddi, l’ha subito buttata in politica: «Sarebbe un colpo di mano gravissimo proprio mentre si torna a discutere della legge per mettere il bavaglio all’informazione»; e la lobby di Repubblica che si affretterà a mettere qualche post-it anti-liberalizzazione, la maggior parte dei giornalisti che fanno il loro mestiere non sentirà la mancanza dell’Ordine. Non foss’altro perché verrà meno il rischio di esserne espulsi o sospesi.

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