Per cancellare lo scalone vogliono penalizzare le donne

Le lavoratrici rischiano di andare in pensione più tardi. Spunta l'idea di contributi figurativi

Per cancellare lo scalone vogliono penalizzare le donne
Roma - Contributi figurativi a pioggia e requisiti pensionistici più morbidi per una platea troppo ampia. Man mano che si delineano i contorni della proposta di Prodi - quella che permetterà il compromesso con la sinistra radicale - nel centrodestra si rafforza la convinzione che tutte le alternative allo scalone allo studio del governo rappresentino un’ipoteca sul futuro del Paese.

Dopo il nodo dell’equità generazionale - evitare che i costi della nuova riforma ricadano sui giovani, già gravati dal sistema contributivo - ieri è tornata d’attualità la questione delle donne. Il ministro della Famiglia Rosy Bindi ha proposto contributi figurativi, cioè accreditati e calcolati ai fini della pensione senza che siano stati effettivamente pagati, per i periodi in cui le donne si allontanano dal lavoro per svolgere un lavoro di cura all’interno della famiglia. Una «buona proposta» per la portavoce di Forza Italia, Elisabetta Gardini.

Ma per altri è il sintomo di un qualcosa che non va. L’affare pensioni, ha commentato Maurizio Sacconi di Forza Italia, ex sottosegretario al Lavoro, «si complica ogni giorno di più». «Ora - spiega - la chiave di volta sembra essere l’allargamento a dismisura dei cosiddetti contributi figurativi, ovvero a carico del bilancio dello Stato, per giovani, lavori usuranti, lavoratori precoci». Concessioni che potrebbero compromettere ogni sforzo di rendere il superamento dello scalone sostenibile.

Su un punto Bindi e Sacconi sono d’accordo e cioè sull’innalzamento dei requisiti per la pensione di vecchiaia a 62 anni per le donne, che prima di essere accantonato faceva parte dei piani del governo ma che potrebbe tornare d’attualità una volta superata questa complicata trattativa.

Una proposta «infelice» secondo Sacconi perché «di fatto costringerebbe le donne ad andare in pensione più tardi rispetto agli uomini». Il ragionamento - politicamente trasversale perché accomuna il sindacato, pezzi del centrodestra e della sinistra - è che le donne difficilmente riescono ad accumulare contributi sufficienti per la pensione di anzianità. E la prova è nel numero degli attuali pensionati. Nel 2006 gli ex dipendenti che godevano l'assegno di anzianità erano 1.482.811 uomini, l’82,5 per cento del totale, contro 313.558 donne pari al 17,5 per cento. Situazione ribaltata per le pensioni di vecchiaia, quelle che si ottengono con 65 anni per gli uomini e 60 per le donne. In questo caso le donne sono la schiacciante maggioranza: 2.243.839 (il 59,8 per cento) contro 1.509.225 (40,2 per cento).

Se i requisiti della vecchiaia fossero innalzati ci sarebbero migliaia di donne costrette ad aspettare i 62 anni per ritirarsi, mentre gli uomini, facilitati da carriere più continue, potrebbero paradossalmente andare in pensione prima.

Il rischio che il governo cerchi di finanziare il superamento dello scalone della riforma Maroni proprio con un inasprimento dei requisiti della vecchiaia delle donne è ben presente anche nel sindacato. Ieri il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani ne ha fatto riferimento esplicito giudicandola un’ipotesi «senza senso».
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