«Il cancro è come uno scarafaggio che ti divora». La metafora kafkiana è di Fabio Salvatore, autore del libro Cancro, non mi fai paura (Aliberti editore) giunto alla seconda edizione in libreria da oggi. Il volume - i cui diritti saranno devoluti alla Favo, la Federazione italiana delle associazioni di volontariato in Oncologia - racconta l'incontro dell'autore con la malattia, nell'estate del 1998, e di come sia stato possibile uscirne. «Lo scarafaggio voleva annientarmi - dice Fabio Salvatore al Giornale - io l'ho guardato negli occhi, gli ho detto "non mi fai paura" e l'ho sconfitto».
La sua storia di speranze, di risposte e di coraggio, nella nuova edizione, si è arricchita con le testimonianze inedite di altri malati che l'autore ha incontrato personalmente durante un viaggio nei reparti oncologici dei più importanti ospedali italiani (Roma, Milano, Pisa, Verona e Bari). Oltre al collage di pensieri e messaggi scelti fra le migliaia di lettere ricevute durante l'anno con cui decine di ragazzi e ragazze continuano a esprimergli profonda gratitudine e lo invitano a non arrendersi, nel libro c'è anche un sondaggio shock, (guarda il sondaggio) commissionato personalmente dall'autore alla società Ekma.
«Per otto italiani su dieci - sottolinea Fabio Salvatore - il cancro è una malattia invalidante. È un dato allucinante, perché non è vero. Secondo i dati del servizio sanitario nazionale, oltre il 50% dei malati guarisce totalmente dalla malattia».
E allora perché la gente la pensa in questo modo così drastico?
«Perché si parla poco di ricerca - e vivaddio, altrimenti non saremmo al 52% - e tanto di malasanità, non di buona sanità. E poi? Di come vive la malattia il malato? La si guarda con gli occhi del medico, mai con quelli del paziente. Il mio libro invece fa discutere, perché inverte il concetto, guardo il male con gli occhi di chi la vive e non di chi la teorizza. Ecco perché il mio libro fa discutere».
Poca informazione?
«Assolutamente. Apra una pagina di giornale e mi dica se si parla di cancro. No. La nostra società rifugge dal dolore, ci si chiede "perché proprio a me e non agli altri?". Ma così noi facciamo un danno irreversibile a chi vive questa malattia. La gente non sa neanche la differenza tra il tumore, cioè la neoplasia - che può essere benigna - e il cancro, che è la parte maligna».
E adesso cosa farai?
«Continuerò la mia battaglia che riguarda l'umanizzazione della malattia, al fianco della Favo, l'associazione che raccoglie i volontari che lavorano con i malati di tumore. La ricerca non basta, bisogna essere vicini ai malati. Non con pietà, ma con passione».
Il suo è un messaggio di speranza...
«Speranza, non illusione. Un elemento imprenscindibile. Il malato vive con speranza il suo domani, non si illude del domani, vive di speranza del domani. È questo quello che ho scoperto. Anche negli hospice, dove ci sono i malati terminali, la gente vive di speranza, parola magica e imprenscindibile».
Che ne pensa del testamento biologico?
«C'è una linea sottilissima che separa la vita dalla morte. Quella linea è impercettibile a chi non soffre. Io che vivo la malattia so che domani mattina potrei morire. Quel limite non è tangibile.
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