Cani, cobra e manguste: avventure nel Nordest

ARRIVO «Se entri in terra veneta da forestiero senti l’impulso a fermarti e restare, magari a viverci»

Cani, cobra e manguste: avventure nel Nordest

A guardare in faccia lo scrittore Bob Bussola, che ho salutato due ore fa al Malacarne prima di salire sulla Renault insieme alla bimba Silvia, non viene da pensare al miracolo veneto o al distretto industriale veneto e neanche al banco ambrosiano veneto, magari pensi a Vittorio Veneto e alla capitolazione austriaca, al saldo demografico negativo degli anni Cinquanta Sessanta col flusso migratorio verso le campagne emiliane, pensi alla piena del cinquantuno, o magari può tornarti in bocca l’indovinello veronese (Se paraba boves, alba pratalia araba...), tolta però l’ultima riga: gratia tibi agimus omnipotens deus (lo scrittore Bussola del circolo Malacarne bestemmia, mica sempre, diciamo ogni tanto, gli vien naturale).
Ma è una visione miope, ristretta, anacronistica, quella che leggi in faccia a Bob. Se invece, come me, entri in terra veneta da forestiero - come ho cercato di spiegare per telefono allo stesso Bob Bussola mentre viaggiavo verso il Palalexus nell’estrema appendice veneta che confina con l’Austria - senti l’impulso a fermarti e restare, magari a viverci, qui nel Veneto libero, godere della lingua, della cultura, della nuova prosperità. Ma son frasi sterili, discorsi a senso unico, con Bussola, capo di una falange veneta sovversiva col cromosoma nichilista insensibile ai miti sociali dell’ottimismo, dell’opulenza.
Arrivato al pregiato borgo per passi, selle e valichi, castelli e domini, mentre chiudo la portiera arriva una di quelle macchine alte e lungimiranti, nere, intimidatorie con le ruote virili e gli interni orient-express; ce n’è un bel numero, dicono, in questi storici villaggi postmigratori, soprattutto tedesche e giapponesi, anche americane ma quelle americane appartengono di più alla cultura avventuristica roadster o supercar, lo dice il mio amico Portioli di Fidenza, che ha letto molti libri.
Dalla macchina scende un giovane d’esperienza marchiato Cortina sui pettorali, sportivo golfista col cubano tra le dita e il passo agile; apre dinamicamente il portellone e fa un richiamo furtivo a Eichmann. Eichmann è un cane carismatico con il cromosoma guerriero, di quelli bassi tetragoni, di moda in queste comunità garantiste. Mentre Eichmann scende con balzo grave, fiutando l’aria per intercettare focolai di guerra, il giovane Cortina estrae il videofonino, gli comanda il numero di Nadia e subito appare sul monitor un mezzo busto di lusso che si chiama Nadia. Parlano di valigie, autostrade, bottiglie millesimate, stelle michelin, poi le dice: ho una sorpresa per te, e la conversazione diventa ruffiana e un po’ spinta. Sarei rimasto a gustarmi quel clima di prosperità se non fosse che Eichmann, dopo aver stirato i nervi magnetici, si è posizionato davanti a me e alla bimba Silvia, spasimando di bava come Cariddi sulla rupe di Messina. Non ho paura degli animali domestici, se son legati; il cane Eichmann non lo era, e aveva un taglio d’occhi e una forma di mandibole già visti nei documentari di Piero Angela sui caimani dell’Orinoco, così ho preso per mano la Silvia accennando i movimenti di base della ritirata. Eichmann se ne è accorto e ha fatto uno scatto iracondo nella nostra direzione con un ringhio gelido prolungato. Siam rimasti fermi per tutta la telefonata, la bimba Silvia mi chiedeva perché stavamo così e io le ho spiegato che è la tecnica del cobra con la mangusta, lei mi ha chiesto cos’erano il cobra e la mangusta ma mi mancavano le basi scientifiche e soprattutto l’equanimità per rispondere.
Finita la telefonata ho chiesto al golfista se c’era maniera di tenere il cane e se sapeva dov’era il Palalexus. Era una domanda intempestiva perché lui senza dir niente ha messo via il telefono e mi ha guardato ostile, ha rimesso in bocca il cubano, è risalito in macchina e mentre riscendeva col guinzaglio Gai Mattiolo si è bloccato a studiare Eichmann, poi ha detto: no, non è il momento. Per fare? Per legarlo. Perché? Perché ormai l’avete eccitato. Il cane ringhiava ai quattro punti cardinali per difendersi da un accerchiamento. Non sono cani, ha detto poi con orgoglio, sono congegni perfetti. Ah, gli ho detto, però se magari lo lega noi intanto andiam via e poi vi parlate. Il golfista Cortina ha scrollato la testa con un sorriso di compatimento: è una razza eletta, mi fa, patisce la coartazione, la vista del laccio può allarmarlo. Mentre aspettavamo che Eichmann superasse i suoi disagi è suonato il videofonino, col recitativo dell’Idillio di Sigfrido: sì, ha risposto lui, sono ancora qui, un minutino, intanto scendi, ah va be’ niente, due minutini, poi ti spiego, comunque c’è una sorpresa, ma sul monitor la faccia di Nadia era rigida e interrogativa.
Il cane aumentava il gas, verso di noi ma anche verso di lui, e lì mi sono accorto che il golfista aveva cambiato faccia. Bisogna avere un po’ di accortezza con queste razze, mi fa, sono bombe a orologeria, chi non se ne intende si tenga distante. Era nervoso. Volevo spiegargli che noi il cane non l’avevamo mica disturbato, anzi, ma tutte le volte che cominciavo la frase Eichmann faceva un balzo famelico in avanti azzannando l’aria e a dir la verità neanche il suo padrone riusciva a imbastire i discorsi di rimando che il cane si girava verso di lui e per par condicio azzannava l’aria da quest’altra parte. Ascolti, gli dico, bisognerebbe distrarlo con qualcosa, una pietra o un bastone, un corpo inerte che lui possa dilaniare. Stavo per suggerire di tirargli il cubano, piuttosto che niente, ma prima che organizzassi le parole il cane è scattato in avanti con un timbro di ringhio di quelli che precedono la soluzione finale. Proverò ad aprire la portiera, ha detto allora il golfista con la faccia cerulea e consunta: magari gli dà conforto, protezione. Eh, gli faccio, giusto, apriamo la portiera che magari si sente come dire tutelato. Con movimenti sempre lentissimi, che far gesti bruschi c’era caso che Eichmann provasse disagio, il golfista si è allungato verso la portiera e l’ha aperta su un ambiente living surrealista vitaminico. È stata una buona idea perché il cane ha smesso il ringhio, si è girato, ha zampettato verso la macchina e con gesto virile uguale e contrario a quello della discesa ci è salito su.
Abbiam sospirato all’unisono. La soluzione ha avuto però un esito imprevisto per il golfista, perché insieme alla chiusura della portiera, che segnava la fine di un castigo, nella macchina è esplosa la furia devastatrice di Eichmann, paragonabile per efferatezza a un tornado del Nebraska o alla rivolta contadina di Pancho Villa: a parte l’abbaiare polifonico che già da solo metteva sbigottimento, Eichmann dava testate e dentate contro i vetri con getti espansivi di bava insanguinata, e la macchina si agitava come una lavatrice in centrifuga.
È arrivata la ragazza Nadia con due valigie Dior, ombrello e pochette abbinati; ha chiesto cosa succedeva. Eichmann è stato provocato, ha detto lui. Chi è Eichmann? Ha chiesto Nadia. La sorpresa che volevo farti. Nadia osservava a distanza il movimento della macchina e le musate del cane; perché fa così? Ho provato a salutarli nell’apice della collera di Eichmann e per delicatezza non ho più chiesto del Palalexus, dove sono poi arrivato con mezz’ora di ritardo e la bimba in braccio.
Quando mi sono seduto tutto sudato sul palco insieme alla Silvia nell’unica poltrona rimasta vuota con dietro la macrofoto della forcella del Pomagagnon all’imbrunire, il pubblico mi ha guardato con un certo imbarazzo. Forse hai ragione, ho detto per telefono allo scrittore Bob Bussola mentre uscivo dal Palalexus: bisogna averci il fisico per salir su dei palchi come le star del cinema; e non so cosa dire neanche sulla questione veneta, non sento più quell’istinto di radicamento, forse si agita in me il becero mito delle origini e ho voglia di andare a casa. Bob si è messo a ridere, mi ha raccontato la parabola di un sindaco che sta trattando la scissione dal Veneto di quel villaggio situato sotto la forcella: una trasposizione duemilista del trattato di Campoformio quando Napoleone ha dato la repubblica di Venezia all’Austria.
L’imbrunire è arrivato per davvero, sulla forcella del Pomagagnon. La macchina nera si agita ancora, lì vicino, con i vetri più appannati; ci sono due pantere lampeggianti e quattro poliziotti in assetto offensivo, un furgone AUSL Igiene Animale e anche una pattuglia della ronda padana chiamata a rinforzo.

La furia di Eichmann non capitola. Nadia è seduta su una valigia Dior con le mani sulle tempie, il suo golfista è lì che parla, parla, agita le braccia, agita la testa, chissà cosa dice. Si è fermata molta gente, c’è un clima mesto e solidale.

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