Cannes celebra il coraggio italiano

Avevamo fatto bene a scrivere che non bisognava temere questo cinema italiano civile e appassionato, e che anzi occorreva esserne orgogliosi, perché solo una nazione che sa raccontare se stessa senza paura è una nazione degna di rispetto. E adesso vedendo il diluvio di applausi che sommerge un allegro e commosso Paolo Sorrentino, a cui la stupenda Milla Jovovich consegna il Premio della Giuria per Il Divo, un dinoccolato Matteo Garrone che per Gomorra riceve Il Gran premio della Giuria da Roman Polanski, ci si rende conto ancora di più dell’importanza di un simile verdetto e di ciò che esso cinematograficamente, ma non solo, significa.
Il 61° Festival di Cannes si è rivelato per noi un trionfo. Dell’Italia è piaciuta l'inventiva e la freschezza, la rabbia e il disincanto, ma anche l'orgogliosa denuncia, il tutto senza didascalismi, senza sterili e/o falsi moralismi, con un linguaggio filmico ricco di trovate quanto scevro di effetti speciali, pieno di ritmo e di colpi di scena, felice nella scelta dei suoi interpreti, si trattasse di esordienti davanti alla macchina da presa, attori giovani in cerca del loro lancio, come in Gomorra, ovvero di eccellenti maschere teatrali come nel caso di Il Divo. In entrambi i casi, la presenza di un grande attore come Toni Servillo ha fatto quasi da testimone e da raccordo, e l'unico rammarico resta quello di un premio come migliore interpretazione che non sarebbe stato affatto demeritato. L’ha avuto invece un altrettanto grande Benicio del Toro per il Che, ed in fondo è giusto anche così.
Per quanto film intrinsecamente italiani, quelli dei nostri due campioni sono però anche film che parlano al cuore di ogni spettatore, perché raccontano, sotto ogni emisfero, la crudeltà della delinquenza e quella del potere, la forza della corruzione e la difficoltà a opporvisi, le zone d'ombra in cui troppo spesso agisce la politica, i compromessi, i misteri, i turbamenti dell'animo umano. Una delle chiavi di lettura di Gomorra è quel «tutto a posto» che scandisce ossessivamente ogni regolamento di conti, ogni impresa criminale, la costruzione di un microcosmo che si crede rappresentativo del mondo e si comporta come se al di fuori di esso il mondo non esistesse... Una delle chiavi di lettura di Il Divo è l’idea di una classe politica murata viva fra le quattro mura della propria indispensabilità, l’idea di rappresentare il Paese soltanto preoccupandosi di rappresentare se stessa. Sterili rituali di governo, pacchetti di voto di scambi, alleanze, un balletto inverecondo in cui essa contempla il proprio ombelico e lo scambia per l'ombelico del mondo...
C’è di più: la differenza dei film che raccontavano la prima Repubblica e Il Divo, che ne è invece l'epitaffio, sta nel fatto che, pur restando per molti versi l'orrore e il mistero, qui è scomparsa la grandezza. Da Le mani sulla città al Caso Mattei ci eravamo abituati a una storia d’Italia in cui il crimine politico aveva comunque una sua aura di sacralità, l’idea di un fine ultimo imperscrutabile, il fascino del male. Qui invece siamo a un finale di partita dove si capisce subito che il giocattolo del potere si è rotto e niente e nessuno potrà più riaggiustarlo. Il film di Sorrentino è il primo a rendere visivamente questo passaggio e a spiegarne il perché. Giulio Andreotti, con il suo tatticismo immobile, il «meglio tirare a campare che tirare le cuoia», è sicuramente il «migliore» dei suoi, ma questo aiuta a capire che cosa ormai fossero gli altri. Agli esercizi spirituali e al monastero che trent’anni fa caratterizzavano in modo lugubre Todo modo di Elio Petri, trent’anni dopo Sorrentino risponde con la lunga corsa nei corridoi del Quirinale usati a mo’ di scivolo, le feste, i banchetti, ovvero la gioia bambinesca di chi si sente arrivato e non avverte il terremoto che lo spazzerà via.
Lo stesso discorso vale per Gomorra, dove l’abiezione rimane tale, non ci sono «don» e «padrini» e la camorra è una sorta di diarrea che infetta ogni cosa, fratricida al suo interno, puramente distruttiva nei confronti del mondo esterno. Il modo di vestire, di muoversi, di parlare raccontano una miseria spirituale allo stato puro.
Cannes è un buon punto di partenza per poter cominciare a parlare di una riscossa italiana fatta di coraggio, scevra di ogni pietismo, per nulla indulgente verso quelli che per lungo tempo, per troppo tempo, abbiamo accettato fossero i nostri caratteri nazionali, un finto buonismo, una fuga dalle responsabilità, la cialtroneria esibita come fosse una carta di credito, l'inaffidabilità vissuta come fosse un elemento di saggezza.

Se il cinema è anche, come accade per altre arti, lo specchio di un paese, occorre guardarsi in esso e lavorare, come classe dirigente, come cittadini, affinché l’immagine via via riflessa finisca con l'assomigliare all’Italia che vorremmo, agli italiani che ci piacerebbe essere. È un compito difficile, è un compito anche faticoso. Ma se ci sono tramonti umilianti, il destino delle albe è quello di essere piene di speranze.

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