Controcultura

A Cannes vince la tristezza. Ma l’Italia può festeggiare

La Palma va a "Triangle of sadness" di Ostlund. Il film con Borghi e Marinelli è Premio della Giuria

A Cannes vince la tristezza. Ma l’Italia può festeggiare

Cannes. Sull'onda di un anno fa, il Festival di Cannes chiude con verdetti a sorpresa. Premiati i «saranno famosi», digiuno per i big. E, se a vincere sono gli asini, per chi perde il rammarico è maggiore. È finita con qualche muso storto. Come sempre. E va in archivio l'edizione numero 75, che a differenza del 2021 rispecchia i meriti e premia chi vale. A fare ombra alla carriera di qualcuno si è messa la guerra di Putin e Kirill Serebrennikov da Rostov ha già vinto la sua personalissima sfida, essendoci. Di più forse era impossibile attendersi, anche se Ciaikovskij's wife è un ottimo film che fa luce sulla figura del compositore e dei suoi controversi sentimenti. Premiarlo sarebbe stato andare oltre i confini del lecito e del politically correct, binomio mai così pertinente. E così la Palma d'oro è andata a un film svedese Triangle of sadness di Ruben Ostlund che in passato aveva già vinto con un'opera provocatoria e controcorrente.


L'Italia non piange. Tutt'altro. Le otto montagne, tratto da un libro del milanese Paolo Cognetti e interpretato da Alessandro Borghi e Luca Marinelli, è girato in Val d'Aosta, lingua originale del Belpaese nonostante la direzione dei registi belgi Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen che nel 2014 contese l'Oscar per il miglior film straniero a La grande bellezza. Sorprendente il bacio che la donna ha stampato sul muso del compagno dai lineamenti provati. Uno smarrimento poi superato quando si è trattato di spendere qualche parola di circostanza. A gettare ilarità è il polacco Jerzy Skolimovski, regista di Eo - distribuito da I Wonder - che senza mezzi termini ha lasciato tutti di stucco: «Ringrazio Rocco e Mela, i miei asini. Vengono dal Lazio, so che stanno bene, li porto nel mio cuore». Resta a secco Nostalgia di Mario Martone, che paga una territorialità vincolante, come sempre quando ci sono di mezzo camorra e affini, ma avrebbe meritato miglior sorte.


Il cinema emergente. Il sud del mondo e dell'umanità. I riconoscimenti dei festival vanno in questa direzione e non deve lasciare disorientati se la miglior sceneggiatura è quella dell'arabo Boy from heaven di Tarik Saleh, una storia a forti tinte musulmane in cui uno studente egiziano finisce al centro degli intrighi dietro la nomina del nuovo grande imam. «Vogliamo costruire un'umanità nuova» il primo commento del regista. E sempre dal Medio Oriente arriva il premio per la miglior attrice, la persiana Zar Amir Ebrahimi di Holy spider dell'esiliato Ali Abbasi, il quale non risparmia critiche alla corruzione iraniana con il caso di un dottor Jekyll e mister Hyde dietro il quale si nasconde un omicida seriale di prostitute, convinto di ripulire la società in cui vive, agganciandole in strada e poi eliminandole. Una trama che incontrerà anche il gusto di chi guarda il film con l'occhio del giallista benché il pubblico non sia mai tenuto all'oscuro sull'identikit dell'assassino. La donna interpreta la giornalista che farà arrestare il colpevole.


Dall'Est viene il miglior attore Song Kang-Ho per Broker del giapponese Kore-eda Hirokazu mentre nessuna sorpresa viene dal Premio del Festival, assegnato a Tori and Lokita dei fratelli Jean- Pierre e Luc Dardenne, fuoriclasse di un cinema sociale che, senza troppi giri di parole - pardon, di immagini - denunciano da sempre i mali della società contemporanea. L'hanno confermato con questa storia che parla di due ragazzi, immigrati dall'Africa e disposti a subire ogni vessazione per «conquistare» il diritto a non essere più dei sans papier. Echi d'Italia, cara ai Dardenne, aumentano il tasso di emotività affidato a una trama che non lascia indifferenti.


Il miglior regista è il coreano Park Chan Wook, autore di Decision to leave mentre il Gran Premio della giuria è andato a un altro ex aequo. Close di Lukas Dhont che nel 2019 vinse il premio con Girl nella prestigiosa sezione «Un certain regard». La sfortunata amicizia di due ragazzi che segna il destino di due famiglie è lo sguardo drammatico verso un angolo della collettività che fatica a immedesimarsi e comprendere problemi e meccanismi psicologici dell'adolescenza. A fargli compagnia Star at noon di Claire Denis.


A bocca asciutta Les amandiers di Valeria Bruni Tedeschi che, con sfumature autobiografiche racconta la storia di undici giovani allievi della prestigiosa scuola di recitazione francese al Théâtre des Amandiers, diretta da Pierre Romans (Micha Lescot) sotto la guida del leggendario Patrice Chéreau, interpretato da Louis Garrel. Sono gli anni Ottanta, rivissuti con il disincanto e lo sguardo rivolto agli intrecci diversi delle differenti vite di quegli aspiranti attori. E pure il suggestivo Frère et soeur di Arnaud Desplechin in cui una sorella, che il volto di Marion Cotillard, odia il fratello (Melvil Popaud) con il quale intrattiene scontri costanti fino a una tardiva rappacificazione. Il film merita lo scavo interiore del regista, attento come sempre a sfumature psicologiche e caratteriali che dominano gran parte delle sue opere. La Francia insomma non premia se stessa e anche questa è una sorpresa.


Anche «Un certain regard», serbatoio da dove escono titoli e registi di futuro successo, ha emesso i suoi verdetti che non parlano italiano come origine artistica ma sbarcheranno tutti sui nostri schermi, già acquistati da I Wonder Pictures. Il premio più importante è andato a Les pires di Lise Akoka e Romane Gueret. Miglior regia a Alexandru Belc per Metronom e premio «Coup de coeur» a Rodeo di Lola Quivoron. Tra gli interpreti, vincono Vicky Krieps, già nota per Il filo nascosto, e Adam Bessa.

Tra i documentari la spunta Mariupolis 2 del regista rimasto ucciso negli scontri in Ucraina.

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