Il "Cant primm" dell’Inferno Dante tradotto in milanese

Ristampata l’opera di Francesco Candiani, un garibaldino che nel 1859 riscrisse in dialetto i canti della Divina Commedia

Che cosa sarebbe accaduto se la «Divina Commedia», invece di essere composta nel 1300 dal più grande poeta di tutti i tempi, fosse stata scritta nella Milano del XIX secolo, da un ardente patriota garibaldino? La domanda, per quanto bizzarra, trova un suo fondamento in un raro volume ottocentesco, per anni creduto disperso, il cui incipit – o meglio il «Cant primm» – recita così: «A mitaa del viagg, che a poch a poch/ Femm tucc al mond de là, mi me sont pers/ In d’on bosch inscì scur e spess de broch,/ Che de desvèrgem no trovavi el vers».
Pochi versi per capire che siamo davanti alla prima traduzione integrale dell’Inferno dantesco in dialetto milanese, scritta tra il 1858 e il 1859 da un fervente sostenitore della causa nazionale, Francesco Candiani, e conservata nell’archivio storico della fondazione Labus-Pullè. Oggi, a 150 anni dalla prima edizione (stampata a spese del fratello Cristoforo nel gennaio 1860, quasi a celebrare l’avvenuta liberazione della Lombardia dall’impero austriaco e la futura nascita del Regno d'Italia), la fondazione ripubblica l’opera, in forma anastatica e tiratura limitata (300 copie), preceduta dall’intervento del presidente, Pierpaolo Cassarà, e dall’introduzione dell’esperto Angelo Stella.
Il titolo non lascia spazio ad equivoci: «L’Inferno di Dante esposto in dialetto milanese da Francesco Candiani». Ben più curioso, il sigillo sulla copertina: «Sottoscrizione dei fucili di Garibaldi». Che significa? È spiegato in fondo al libro: le copie, vendute al prezzo di 3 lire, sarebbero servite a raccogliere fondi per «l’acquisto del milione di fucili proposto dal Generale Garibaldi a cui l’opera stessa è dedicata». Quanto all’Eroe dei due mondi, «l’accoglimento che da Lui ottenne questo lavoro, comunicato con lettera 17 gennaio – precisa l’editore -, mi è pur sicura garanzia del favore in che lo avranno i miei Concittadini». Da qui la scelta di trasporre il capolavoro dantesco (un’impresa già tentata da Carlo Porta ma mai portata a compimento) nella «lingua», nel tempo e nei luoghi delle Cinque giornate. Così, se per Dante la società è una «selva oscura» pervasa da errori e da vizi (le tre fiere) che attende l’avvento di un imperatore («veltro»), allo stesso modo per Candiani l’Italia è un «bosch inscì scur» soggiogato da tre potenze straniere, «l’Austria, la corte di Napoli e quella di Roma», che intravede la salvezza nello stemma dei Savoia. «Fin da quando lessi il poco che il nostro Porta tradusse in milanese dell’Inferno – spiega l’autore, del quale sappiamo ben poco, se non che apparterrebbe all’illustre dinastia di cotonieri della Valle Olona - vagheggiai l’idea di farne la traduzione per intero, parendomi assai bella cosa che anche il popolo meno colto bere potesse alla fonte di tante sublimi idee, e fosse grato al gran Poeta che fin da tempi sì lontani avvisava ai mali d’Italia». Per Candiani, dunque, il dialetto è il veicolo per diffondere, nella città della Madunina, i valori risorgimentali della patria, dell’indipendenza e dell’unità italiche già auspicati da Dante nelle frequenti invettive contro i tiranni, gli oppressori, i papi usurpatori del potere politico.

Il risultato dell’ambizioso progetto? Un’opera popolare di trentaquattro canti in rima, rigorosamente in vernacolo milanese, che ripercorre il viaggio di Dante attraverso i nove cerchi infernali, traduce le parole scolpite sulla porta del regno («Chi se entra e no se sort,/ Chi ghe ven ghe sta in eterno», in luogo del celebre verso: «Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate»), ricostruisce l’incontro con Caronte («quell Demoni coi oeucc de foeugh»), quello con il giudice degli inferi Minosse («che rogna e cricca i dent e fa paura»), riporta i dubbi del poeta («Sent on poo, Virgil car,/ Va ben vegnitt adree, ma saront bon/ De tegni dur al duu per duu? Te par/ Che gh’abbia i oss del stomegh fort asee/ De no fà la figura a tornà indree?») e le parole, ben più famose - «Amor, ch'a nullo amato amar perdona...» - delle anime di Paolo e Francesca: «Chi l’è quella per dia ch’avrav poduu/ No corrispond a on amor de sta sort?/ La gran passion n’ha rovinaa tutt duu/ Compagn di vita e fin compagn in mort».

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