Dal caos degli orari ai biglietti via telefonino

Nel 1860 l’Europa fu scossa da un fatto di cronaca nera: il presidente del tribunale di Parigi fu ucciso in treno, e l’assassino non fu mai trovato. Allora le carrozze erano divise in scompartimenti, ma tra l’uno e l’altro non c’era alcuna comunicazione, l’ingresso avveniva dall’esterno e non esisteva corridoio. Erano gli albori delle ferrovie, e un vagone era la semplice somma di tante carrozze, di quelle trainate dai cavalli, con i divanetti rivolti l’uno di fronte all’altro. L’omicidio di un magistrato di quel livello diede esca alle polemiche, che si scatenarono soprattutto sui temi della sicurezza. Si trovò una soluzione: fu creata una finestrella tra scompartimento e scompartimento, per assicurare un minimo di comunicazione. Di lì a poco fu introdotta un’innovazione risolutiva: nacque il corridoio, e con esso mutarono anche le carrozze, non più «milleporte» ma con due soli accessi.
A un secolo e mezzo di distanza il treno è sempre lo stesso: corre su binari dritti e paralleli e trasporta passeggeri da una città all’altra. Ma, a parte i principi di base, è cambiato tutto. Oggi si viaggia a 300 all’ora, venti volte di più veloci di allora. Gli scompartimenti non esistono più. Il biglietto si fa su internet o dal telefonino. Il posto è preassegnato, non c’è più - eccetto il mondo a parte del trasporto regionale - il rischio di entrare in una bolgia. Il treno, come mezzo trasporto pubblico, è più vecchio dell’aereo: e per questo gode di un vantaggio competitivo, perché arriva nel centro delle città, mentre gli aeroporti sono fuori mano. L’Alta velocità, poi, in tutto il mondo, ha portato a una percezione diversa anche delle dimensioni del territorio: con un treno veloce ormai si può vivere a Torino e lavorare a Milano, aver casa a Bologna e ufficio a Firenze. I tempi delle percorrenze - specie in un Paese urbanisticamente denso come il nostro - si sono ridotti al punto che andare da una città all’altra è come muoversi da un quartiere periferico al centro. Cambia solo il mezzo.
Il treno ha rinnovato anche il tempo: perché ha creato per primo, nell’Ottocento, la necessità di coordinare gli orologi tra un luogo e l’altro, fino a quel momento puntati sulle ore locali dettate dal sole. Fu un processo lungo, avviato in Inghilterra. All’inizio gli orari delle compagnie si regolavano sull’ora della città dove avevano sede, e il capotreno utilizzava per il viaggio un orologio che la sera riponeva nella cassaforte dell’ufficio. Ma il sistema era complicato per chi saliva sul treno in una località diversa, che doveva fare i calcoli necessari. Proprio in Inghilterra si decise di istituire un’ora «ferroviaria», valida per tutto il Paese, che poi, nel 1880, divenne automaticamente l’ora standard, l’ora nazionale. Fu una rivoluzione. Il processo ebbe fortuna, tanto che gli altri Paesi europei si adeguarono e nel 1884 una conferenza internazionale, a Washington, «inventò» i fusi orari, dividendo il mondo in spicchi e coordinando le ore di tutti i Paesi. Un risultato indotto dal treno, che fu il primo mezzo a stabilire relazioni «standard» tra luogo e luogo.
In Italia l’ora ufficiale arrivò il 10 agosto del 1893, con un decreto di Umberto I. Fino a quel momento, dall’Unità, esistevano tre ore: quella della Sicilia, basata sul meridiano di Palermo, quella della Sardegna, sul meridiano di Cagliari, e quella della Penisola, sul meridiano di Roma. Nel decreto si stabilì che «il servizio delle strade ferrate verrà regolato secondo il meridiano dell’Europa centrale» e che «il computo di ciascun giorno verrà fatto da una mezzanotte all’altra».

Si acquisiva l’ora «alla francese», perché quella «all’italiana» faceva cambiare il giorno al tramonto. Quelle norme regolano i nostri orologi anche oggi. E tutti noi, senza saperlo, viviamo al ritmo dell’«ora ferroviaria».

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