Cronaca locale

Capanna & compagni adesso ricordano Palach

Per la piazza in cui Jan Palach si suicidò col fuoco, era l’unica protesta possibile. Sessantotto nella Praga invasa dai carri armati sovietici. Al filocinese Mario Capanna quel gesto non importò. O, giusto per parlarci chiaro, non gliene fregò proprio nulla. Troppo impegnato a chiosare le contraddizioni del capitalismo e dell’imperialismo americano non ebbe né pensiero né tempo per inchinarsi al coetaneo Jan e alla ribellione dei suoi fratelli cechi.
Oggi, l’ex leader del Movimento studentesco ammette che non fece «quanto si poteva e doveva». Già, il Movimento non «ne comprese fino in fondo la portata storica e strategica». Sì, avete letto bene, l’aggettivo cult di Capanna è «strategica» che è sinonimo di astuta, ingegnosa: se Capanna e i suoi filocinesini avessero dunque compreso «fino in fondo la portata» del gesto del ventunenne cecoslovacco, be’ l’avrebbero più che sfruttato. Ma, allora, bontà loro, erano «distratti» aggiunge Giovanni Cominelli: «Eravamo più interessati alle lotte di liberazione e non a quelle per la libertà» ovvero «le lotte dell’Est erano guardate con una certa sufficienza». Quarant’anni dopo, però, non sono più «distratti» e vagheggiano la speranza di superare «scorie e cascami ideologici che hanno creato zone d’ombra intorno all’episodio Palach». Come dire: è l’ultima loro occasione per pentirsi ma senza strafare perché, nel 1968, si «muovevano sulla scorta del rifiuto del capitalismo e dell’imperialismo americano» e, dunque, quando Palach decise di darsi fuoco era ancora «momento ibrido».
Giustificazionismo di Capanna, Cominelli e, tra gli altri Nando Dalla Chiesa and compagni, che ricordano Jan Palach con un tour sulla piazza San Venceslao di Praga: «Non andiamo però a Praga con la coda tra le gambe ma con dignità e fiducia nel futuro» (ri)spiega Mario Martucci, oggi immobiliarista e ieri ex capo della propaganda del Movimento studentesco. Che, in sintesi, vuol dire farsi un weekend nella capitale europea a base di «pietas e orgoglio».
Che dire? Buon soggiorno, naturalmente, in una piazza che è vuota e che, quarant’anni fa, vide spegnersi la speranza della Primavera di Praga. Per il resto, basta anche con le altre scuse, «se non ci fu un momento di consapevolezza è perché, nel ’68, le forze fasciste misero subito il cappello su Palach». Siamo nel 2009 e quello che, forse, occorre sarebbe, come direste voi, un po’ di autocritica magari a colpi di piccoli gesti significativi, di memoria data ai giovani senza voler mettere il cappello su una tragica scelta di togliersi la vita per la patria.

Filo comune che lega Palach a Massud, il leone del Panshir, e al combattente dell’Ira, Bobby Sands.

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