Via Capo Rizzuto Sgomberato il campo nomadi

Un blitz notturno, poi la retata. Finiscono in questura sessanta persone. Ma i due rom ricercati per violenza sono già scappati

Enrico Lagattolla

Le macerie, il fango, i topi. La piana bruciata da un sole a quaranta gradi, le impronte delle ruspe sul terreno, le figure che vagolano tra i resti accatastati di quello che fino a ieri era il campo nomadi di via Capo Rizzuto. L’ultima alba tra le baracche è passata. Lo sgombero è terminato.
Sono le quattro, in meno di un’ora fa giorno. Le forze dell’ordine arrivano, in 150 tra poliziotti e carabinieri. È il blitz.
La prima richiesta degli agenti è perentoria: «Consegnateci i due ricercati». Capo Rizzuto è la tana del branco, da lì viene Mur Raduliviu, arrestato per stupro otto giorni fa. Degli altri s’è persa ogni traccia. Capo Rizzuto non ne sa più nulla. «Spariti».
Le forze dell’ordine avvertono: «Lo sgombero sta per iniziare». Le 5.30, all’ombra dell’autostrada arrivano ruspe e camion della nettezza urbana, i furgoni della polizia fanno da scorta. Una manciata di minuti agli abitanti del campo. Il tempo di recuperare documenti, soldi, effetti personali.
Frenesia. Furioso andirivieni nelle baracche, si raccatta quello che è a portata di mano. Paura. Un uomo che si cosparge di benzina e minaccia di darsi fuoco, gli agenti che intervengono a evitare il peggio.
Infine, la retata. In sessanta vengono portati in questura, venti sono le donne. Il numero degli irregolari è ancora da accertare. Ma non è un caso che lo sgombero sia avvenuto ieri. È che da qualche giorno, in via Corelli, si sono mosse le acque. Alcuni «ospiti» del centro di permanenza sono stati rimpatriati, e - a catena - i clandestini di Capo Rizzuto prenderanno il loro posto. Poi, espulsi con decreto «collettivo».
Eppure una soffiata era già giunta nel campo. La notizia del blitz era nota anche qui. «Lo sapevamo, e non sono pochi quelli che non si sono fatti trovare». Petr ha 23 anni, romeno di Craiova. Fa l’operaio, viveva in una delle baracche, e «adesso quella è la mia casa». Indica un cespuglio. Sposta un ramo, sua moglie è accovacciata a terra. «Aspettiamo».
E sono più di cinquanta, quelli che aspettano. Poco lontani dai resti del campo, raggruppati ai bordi di una strada sterrata, riparando all’ombra degli alberi. Per lo più donne con bambini, ma anche ragazzi e uomini adulti, che nell’Ufficio immigrazione della questura sono già passati nei giorni scorsi. «Dove andiamo a vivere, adesso?». Tra gli sfollati si naviga a vista. «Aspettiamo la sera, vediamo se ci dicono qualcosa».
Restano i detriti, il fango, i panni al sole, i topi. Sono le 2, a pieno regime le ruspe macinano quattro tonnellate di macerie, quel che resta di Capo Rizzuto. Qualcuno è tornato, «ho dei soldi là sotto». Nelu rovista sotto le lamiere spianate della sua baracca. Ha 27 anni, da tre è in Italia, dice di aver sempre lavorato. «Contratti di tre mesi, mi guadagnavo da vivere onestamente». Sotto braccio, una cartella gonfia di documenti. «Vedi? Questo è l’ultimo lavoro che ho fatto».

Muratore presso un’impresa del milanese, collocazione tramite un’agenzia di lavoro interinale. Li mostra tutti, i fogli, e «vedi che non dico balle?». Nelu ha una bici, il paio di pantaloni che indossa, e quei documenti. «Se li perdo - dice - non ho futuro».

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