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Il capolavoro deportato

Il capolavoro deportato

Ben più che la sparizione di una fotografia, concepita con l'intelligenza dolorosa di Paolo Gioli, una Polaroid applicata su carta e rielaborata, che non dispero di ritrovare, confusa fra documenti non esposti, perché fraintesa, mi preoccupa, da qualche settimana, la sparizione dalla mostra del Male, a Stupinigi, del Ritratto di uomo di Antonello, che appartiene alle collezioni del Museo Civico di Torino. Naturalmente è stato ritirato anzitempo, e dopo una lunga discussione, perché non lo si voleva neppure inviare alla mostra, per poterlo sottrarre ancora al pubblico godimento. Nel senso che il meraviglioso dipinto è tornato alla sua sede per non essere visto, che è la sua condizione naturale. C'è una qualche buona ragione perché un capolavoro di una tale importanza passi più tempo nascosto che esposto? Se, per i lunghi lavori di riallestimento, Palazzo Madama resta chiuso, si potrebbe salutare come una felice opportunità la presenza dei dipinti più significativi in mostre che prevedano un grande afflusso di pubblico, o in prestito in sedi museali alternative. Ma questa semplice soluzione, generosa e virtuosa, non passa attraverso le menti di funzionari gelosi che preferiscono nascondere che mostrare, con pretesti vari. In questo caso il dipinto riapparirà soltanto alla fine di dicembre, inaugurandosi le Olimpiadi della Neve. Ma la vera ragione della sottrazione è nel progetto, elaborato con grande convinzione, di restaurare il dipinto, una tavola in miracoloso stato di conservazione, perfetta e integra al punto che una sola cosa chiede: non essere toccata. Eppure le ragioni di un improvvido restauro hanno determinato l'urgenza di deportare l'opera verso laboratori di ricerca e di studio che, dopo lunghi mesi, stabiliranno a quali necessità soccorrere. Nessuna, invero, giacché la forza e la vitalità della tavola non potrebbero essere che alterate da un restauro. La cui efficacia, peraltro, sarebbe nella sola eliminazione della vernice ingiallita che, uniformemente distribuita, attribuisce al ritratto un'aura meravigliosa di tempo e di verità. Io credo che l'Opificio delle Pietre Dure, dopo mesi di ricerche che potrebbero ridursi a un giorno, concluderà che l'opera non ha bisogno di nulla e deve essere lasciata com'è. Resta, intanto, che nessuno la può vedere e che non si può escludere che qualcuno ritenga necessario un intervento di pulitura delle vernici ingiallite per ottenere un risultato simile a quello del Ritratto d'uomo della Galleria Borghese, divenuto livido e frigido come una pittura su vetro. E dal momento che, ictu oculi, senza alcuna necessità di quelle analisi scientifiche che sembrano compensare l'assenza di occhi e di buon senso, il dipinto non ha alcun bisogno di restauro e sta benissimo com'è, come un uomo sano rispetto a un malato, non vedo perché bisogna curarlo per forza, come si farebbe con un intervento chirurgico per ringiovanire un volto, scaricandolo di tempo. Il tempo aggiunge a un'opera e, spesso, il restauro depaupera; toglie, appunto, invece che aggiungere. Pittori sensibili, come fu Balthus, com'è ora Carlo Guarienti, pittori che conoscono le tecniche per esperienza, che sono artisti e non chirurghi, o il severissimo amico americano James Beck, che ha combattuto tante battaglie, anche estreme, eccessive, perché si tenessero giù le mani dalle opere d'arte, con molte buonissime ragioni, se sapessero, e se potessero vedere, in quali condizioni è il dipinto di Antonello, griderebbero tutta la loro indignazione per i rischi di una impresa vana e inutile. Sono costretto ancora una volta, in tempi brevi e nella città di Torino, a chiedere al ministro per i Beni Culturali di arrestare l'insidioso progetto, e alla giudiziosa direttrice dell'Opificio delle Pietre Dure di Firenze, laboratorio di restauro di Stato, di incrociare le braccia e rifiutarsi di proseguire, oltre le indagini, qualunque intervento sul dipinto. Antonello sta bene così, può essere esposto oggi, sottratto a menti e mani per restituirlo ai soli sensi e sentimenti a lui convenienti: gli occhi e il cuore. Di nient'altro ha bisogno. E così come, con ospiti illustri da musei stranieri, il Presidente della Repubblica fece al Quirinale, esponendo la Dama dell'Ermellino o la Madonna Litta, suggerisco al primo cittadino di Torino, all'amico sindaco Chiamparino, di recuperare la dignità del potere politico più alto, rivendicando a sé la tutela del prezioso dipinto che appartiene alla città ed esponendolo nelle sale di rappresentanza del Municipio di Torino, solo e per tutti, in attesa della riapertura di Palazzo Madama.

Così soltanto, nell'armonia delle determinazioni politiche e tecniche, e dei diversi poteri, lo Stato potrà manifestare, attraverso un piccolo ma vivido segnale, il proprio prevalere sulla burocrazia e la falsa scienza.

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