Cara Carfagna, il vittimismo offende la dignità di noi donne

Basta, donne, con questa lagna. Non se ne può più di sentire il lamento «l’uomo non ci lascia fare», «gli uomini ci boicottano», «il maschio è padrone». Questo fare antistorico di indossare l’abito della vittima, per creare attenzione, pietas e solidarietà, fa veramente orrore e offende le donne. Tutte quelle consapevoli della propria dignità e della ormai indiscussa parità giuridica e sociale. Ma anche quelle che ancora sono vittime dell’ignoranza propria e della violenza altrui. Le sole che vittime si possano ancora definire. Per il resto, abbiamo conquistato qualsiasi cosa volessimo. Come dice Feltri, le donne oggi hanno la parità anche numerica in professioni che per millenni sono state esclusivamente maschili (medico, avvocato, magistrato, politico). E ciò nel nostro Paese hanno fatto in pochi decenni: il diritto di voto è del 1946; il primo avvocato donna (in Svizzera) è del 1900; il primo magistrato donna del 1964. La parità giuridica coniugale del 1975. Negli ultimi cinquant’anni sono state varate miriadi di leggi per tutelare la donna come madre, casalinga, lavoratrice. Ci sono stati innumerevoli interventi legislativi, contro la violenza domestica, a favore della procreazione assistita e persino della non procreazione. Comitati, movimenti, ministeri sulle pari opportunità sono nati come «gremlins».
Nel 2006 è uscito, addirittura, il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, in materia di diritto del lavoro, che raccoglie le norme che vietano la discriminazione, impongono l’istituzione delle apposite commissioni di controllo, definiscono l’attività del comitato per l’imprenditoria femminile. Nel testo vengono pignolescamente elencate e censurate le varie forme di discriminazione (ivi comprese le molestie sessuali) che le donne non devono subire, nell’accesso al lavoro, nella retribuzione, attività lavorativa e carriera; nell’accesso alle prestazioni previdenziali; agli impieghi pubblici, alle carriere militari. Ci sono poi vari decreti legislativi che individuano forme di finanziamento dedicato, in particolare, al lavoro femminile.
Ma come può, il ministro Carfagna, di fronte a questa clamorosa prova di protezionismo, finanche eccessivo, affermare che «il potere è maschio» e che le riforme si possono fare con l’amore? A parte il fatto che si potrebbe obiettare come l’amore crei più danni delle strategie politiche - se non altro ricordando in quanti cosiddetti amori si debba parlare di guerra, vendetta e tradimento - dove è scritto che una donna non possa aspirare ai vertici e conquistarli? Basti pensare alla Marcegaglia, alla Merkel e alla mai dimenticata Thatcher. Basta leggere la lista che Forbes pubblica tutti gli anni per incappare in una donna che è a capo della Corte Suprema degli Usa, in altre a capo della Pepsi o di Yahoo, in Oprah Winfrey conduttrice potentissima, in Nancy Pelosi speaker della Casa Bianca. Tutte donne potenti e influenti che hanno soppiantato altrettanti uomini, un tempo potenti. Anche in casa nostra possiamo onorare le centinaia di imprenditrici italiane, le decine di donne giudici presidenti di Tribunale, le tante avvocatesse che hanno fondato studi importanti da sole, senza essere vallette o amanti di qualcuno; le dottoresse primarie di ospedali prestigiosi. E non si può non ricordare, soprattutto, la nostra ministro Gelmini, che ha avuto il coraggio di riformare a fondo, col rischio dell’impopolarità e con un risultato senz’altro positivo, ma che si vedrà a lungo termine. È giovane, è competente, ha la forza della dignità del ruolo e della persona e non si perde in cicalecci da anni Cinquanta. Come diceva Simone de Beauvoir, non si nasce donna: si diventa.
La donna è sempre più protagonista, culturale ed economica, nella società di oggi; anzi sta dimostrando di essere la componente più dinamica, perché dalla rivoluzione è passata, senza soluzione di continuità, all’evoluzione. Una volta si accontentava di un basso livello di istruzione e, se lavorava, lo faceva senza ambizione in attesa del matrimonio che le avrebbe dato lo status sociale. Era esclusa dai ruoli di comando e, se separata, veniva in pratica ripudiata. Oggi la professione è una componente essenziale dell’identità femminile e la maggior parte delle donne è affrancata dalla necessità di avere un uomo per garantirsi reddito e posizione sociale. Se psicologicamente autonome, se competenti, se oneste. Se fiere della loro dignità. È vero, però, che, dove ci sono potere e denaro, alcune donne si autoimmolano alla schiavitù, perché la strada per arrivare al soldo e al comando è più semplice e la si percorre da sdraiate con i soli sudori del talamo. Tuttavia, continuare a dichiararsi vittime, tra mille inutili recriminazioni, significa non avere percepito la forza e l’importanza delle conquiste sociali; vuol dire considerare ancora l’uomo a livelli superiori di capacità; manifesta un grado di autostima assai mediocre. Suggerisce la volontà non trasparente di stare in un comodo ghetto protette da tanti alibi. Palesa l’ignoranza di ciò che è successo, a solo favore delle donne, negli ultimi cento anni. Dunque, io sto con Gandhi: è una calunnia parlare di sesso debole a proposito di una donna.

Ma devo tener conto anche di chi ha detto che, per quanto un uomo possa pensar male delle donne, non c’è donna che non ne pensi «più male» di lui. Un malcostume culturale che le donne, soprattutto se ministro per le Pari opportunità, non devono coltivare. In nome della legge.

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