Qualcuno ha trovato eccessive le mie esternazioni all'inaugurazione della mostra «Caravaggio e l'Europa» a Palazzo Reale a Milano, accusandomi di «confondere le carte in tavola, e soprattutto, i ruoli istituzionali (e non) in gioco». Ignorando le devastazioni quotidiane autorizzate da solerti funzionari, come la cancellazione di un insediamento medievale in prossimità dell'anfiteatro romano di via Arena a Milano, si giustifica il pretestuoso rigore di quei dirigenti del ministero per i Beni culturali che, «dovendo provvedere alla conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale collettivo», hanno negato il prestito di due delicati dipinti di Caravaggio. Integerrimi, irreprensibili, non hanno ceduto «neppure» alle «pressioni politiche più trasversali». La realtà è ben diversa e meschina, e non può essere nobilitata dal richiamo ad astratti principi che non hanno nessun riscontro nella realtà. E dunque io ripeto le mie accuse a funzionari che abusano del loro potere, trovando paladini che parlano di quello che non conoscono. Nessuno come me, in questi anni - e può testimoniarlo la collega Gabriella Pistone, dopo la distruzione del teatro di Acqui Terme con la complicità dei funzionari del ministero - ha sostenuto le ragioni della tutela, mai pretestuosamente. Una mostra di Stato, come fu quella sul Caravaggio del 1951 in Palazzo Reale a Milano e come è la sua nuova edizione che pone l'attenzione sullo straordinario seguito che il Caravaggio ebbe in Europa, non può essere concepita senza la piena collaborazione di funzionari, sovrintendenti e direttori di museo, i quali invece coltivano i loro interessi inviando, senza preoccupazione sullo stato di salute dei quadri, le preziose opere di Caravaggio, e non solo, nei musei stranieri, per mostre che, al di fuori di ogni coordinamento, non nascono sotto l'egida né del ministero né di comitati nazionali che ne sono la massima espressione. Io ho l'abitudine di dire tutta la verità. Essa è la seguente: l'omaggio a Roberto Longhi era doveroso, e inevitabile, per la coincidenza della sede, oltre che per l'approfondimento di problemi aperti dal grande studioso. Una sezione della mostra, «Il genio degli anonimi», a lui dedicata, è curata da Gianni Papi, allievo della più «caravaggesca» tra gli allievi di Longhi, Mina Gregori. Il centro dell'esposizione, e dunque il suo sviluppo, non è Caravaggio ma il movimento internazionale caravaggesco, nascendo per impulso del comitato nazionale per le celebrazioni di Mattia Preti, che si chiudono con questa importante manifestazione.
Il partner viennese, il Museo Lichtenstein, ha gradito e proposto il titolo generico e onnicomprensivo «Caravaggio e l'Europa». Il contributo di una associazione e di sponsor, per integrare i 480.000 euro in dotazione al comitato a fronte dei 3.200.000 spesi, è necessario nel rapporto virtuoso tra pubblico e privato, anche nell'incertezza del profitto, così come avviene nella gestione della Galleria Borghese e come ha voluto Veltroni con la trasformazione della Biennale di Venezia da Ente autonomo a Fondazione, attraverso l'auspicato sussidio di privati che entrano di diritto nel consiglio di amministrazione. Qualche assenza, come la Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi, o il Davide con la testa di Golia di Tanzio da Varallo, oltre ai due Caravaggio, è dovuta alla drammatizzazione delle condizioni di conservazione dei quadri non prestati. Andando con ordine, per la Cena in Emmaus di Brera, la discrezionalità del prestito (il suo rifiuto a Milano dopo essere stata concessa a Napoli) è legata anche a ragioni di opportunità che possono essere interpretate in due modi opposti. La prima, naturalmente, è che Brera è a un quarto d'ora a piedi, e che il dipinto si può facilmente vedere in situ; la seconda è che se si ottengono quadri importanti e delicati da ogni parte del mondo, il ministero che chiede, attraverso il comitato della mostra, potrebbe dare un segnale di buona disposizione (il «buon esempio») acconsentendo al prestito proprio di un quadro che è a solo un quarto d'ora di strada. Per quanto riguarda, invece, la Sepoltura di Santa Lucia di Siracusa, andrà detto chiaro e forte che quello straordinario dipinto non merita la tortura di un terzo intervento chirurgico in mezzo secolo, essendo già stato per più di dieci anni, al tempo del compianto Giovanni Urbani, in restauro presso l'Istituto centrale, e non potendo essere recuperato a migliore lettura se non con integrazioni pittoriche che nulla hanno a che fare con la conservazione ma solo con la presentazione estetica del dipinto. I lunghi e oziosi soggiorni presso l'istituto sottraggono il dipinto al pubblico godimento, o nella sua sede naturale o in una grande mostra dove potrebbe essere visto da migliaia di visitatori come fu, solo qualche mese fa, a Torino, nella mostra sul «Male». È falso, come taluni hanno osservato, che il dipinto sia «talmente magro di colore ed imprimitura da avere la tela in vista», giacché il colore, dove c'è, è sufficientemente consistente, e dove si vede la tela è semplicemente perché il colore è caduto negli anni in cui il dipinto era conservato nella Chiesa di Santa Lucia, in condizioni insalubri di umidità. Può viaggiare senza disagi, e la direttrice dell'Istituto centrale del restauro, Caterina Bon, mente. Come aveva mentito nel caso di un altro quadro di Caravaggio, anch'esso per sempre sottratto al pubblico godimento. Dovrebbe risultare, infatti, particolarmente scandaloso che la principessa Odescalchi contempli, solitaria, o con pochi amici, il capolavoro di Caravaggio di sua proprietà, la Conversione di Saulo, al solito prima concesso e poi bloccato dal ministero. In una democrazia reale e in un civile rapporto fra pubblico e privato, come accade in Inghilterra, un dipinto di quell'importanza deve essere, con tutte le precauzioni, messo a disposizione del pubblico. Soprattutto se è, come è, in ottime condizioni, come hanno potuto constatare esperti e restauratori quando fu esposto a Mantova. Ancora una volta cavillose e capricciose osservazioni lo hanno fatto considerare infermo quando era perfettamente sano. Ecco l'abuso per chi ha occhi e conoscenza. Ancor peggio quando per compensarne il ritiro e la clausura in una casa privata, si invia, come accadde nella mostra di Mantova, un dipinto capitale di Caravaggio esposto agli Uffizi, il Sacrificio di Isacco, in perfetta contraddizione con il buonsenso e con le ragioni per le quali si è invece negato il prestito della Cena in Emmaus di Brera. Che senso ha mandare a Mantova un quadro che si vede sempre agli Uffizi e far tornare a casa un quadro che non si vede mai?
Di più: prima dell'abusivo intervento della Bon, la Sovrintendenza aveva concesso il prestito del Caravaggio Odescalchi, così come in questa occasione milanese il capo dipartimento del ministero, Francesco Sicilia, aveva, in numerose riunioni, garantito, e anzi offerto, il prestito della Sepoltura di Santa Lucia per favorire la presenza di almeno qualche Caravaggio alla mostra su «Caravaggio e l'Europa». E anche quelle garanzie, pur rassicuranti, erano fuori luogo: il dipinto, infatti, in deposito presso l'Istituto Centrale del Restauro, appartiene al Fondo Edifici di Culto (Fec) del ministero degli Interni, che l'aveva concesso alla mostra, e dipende, per ciò che riguarda la tutela, dalla Regione Sicilia che ha autonomia legislativa e responsabilità esclusiva sui beni culturali. Esiste quindi anche un conflitto di competenze e una violazione dello statuto Siciliano, tanto più che l'Assessorato alla cultura della Regione Sicilia aveva autorizzato il prestito.
Gli abusi della Bon sono dunque di natura tecnica e di natura giuridica: i primi per incompetenza, i secondi per prepotenza. L'Istituto Centrale, infatti, non ha poteri commissariali, ma semplicemente consultivi. Villania a parte, perché la Schwarz non parla di quello che sa? Non mi risulta una sua particolare esperienza in materia di quadri antichi e di restauri.
Davanti ad una così evidente violazione della legge, a danno dei cittadini, non resta che investire della questione l'autorità giudiziaria, senza incertezze e indulgenze.
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