Il carcere azienda dove i detenuti diventano impiegati

Al Due Palazzi di Padova da 5 anni opera una cooperativa che produce e vende merci in Italia e all’estero

Nino Materi

nostro inviato a Padova

Franco ogni mattina si sveglia, si fa la barba e va a lavorare nel laboratorio di pasticceria. Così, ogni giorno, dal 2004: l’anno in cui è stato assunto. A fine mese Franco riceve un regolare stipendio, anche se la cosa cui tiene di più non sono i soldi, ma la soddisfazione di realizzarsi professionalmente. Sembra la storia di uno di noi (noi che viviamo liberi in un mondo di uomini liberi) e invece è la giornata tipo di uno di loro (loro che vivono prigionieri in un mondo di uomini prigionieri). Franco è infatti uno dei detenuti del carcere Due Palazzi di Padova, dove - negli ultimi cinque anni - dall’avvento della legge Smuraglia sono state avviate nuove attività lavorative per i detenuti, trasformatisi giuridicamente in dipendenti del Consorzio di cooperative sociali Rebus.
La casa di reclusione Due Palazzi ospita un parco attrezzato, alcune botteghe artigianali, un laboratorio di cartotecnica, un polo di ristorazione e un call center. Insomma, se non fosse per le sbarre alle finestre, potrebbe sembrare un moderno centro commerciale. Le facce che incontri nei vari padiglioni non hanno infatti l’espressione rassegnata di chi deve fare i conti con la privazione della libertà, ma il volto entusiasta di persone a cui è stata offerta l’opportunità di ricominciare a credere in se stessi. Come nel caso di Franco: «Quando uscirò, con quello che ho imparato qui, spero di poter aprire una pasticceria tutta mia». «Abbiamo portato all’interno del carcere attività imprenditoriali e sociali - afferma Nicola Boscoletto, il presidente del Consorzio Rebus che riunisce le cooperative che operano all’interno del carcere - perché noi non facciamo assistenzialismo, ma realizziamo prodotti che vanno direttamente sul mercato. Rilevanti le cifre: poco meno di 200 detenuti formati, assunti e avviati al lavoro; 60 attualmente in forza, là dove fino a cinque anni c’erano solo capannoni abbandonati. Un piccolo miracolo italiano dove istituzioni carcerarie, enti pubblici, aziende e privato sociale fanno ognuno la propria parte. Nessuno è protagonista: senza uno solo di questi attori questo miracolo non sarebbe possibile». «Il valore sociale dell’iniziativa è molteplice - aggiunge Boscoletto -: offrire un percorso di recupero per riappropriarsi di capacità fondamentali e, al tempo stesso, fornire un percorso di formazione che dia la possibilità di un concreto rientro nella società civile».
Una testimonianza per tutte: quella di Marino. «Sono in carcere dal 1994 e mi trovo in questa struttura dal 2000. Sono detenuto per alcuni reati tra i quali omicidio e rapina, e il mio fine pena è Mai, infatti sono condannato all’ergastolo. Sono tra i più anziani dipendenti del Consorzio Rebus. È il febbraio del 2002, e mentre mi sto avviando alla sala colloqui incrocio il direttore del carcere. Appena mi vede mi chiama da parte e mi chiede a bruciapelo se sono contento di partire. Partire è un verbo che qui, in carcere, non promette nulla di buono. In genere significa far su in fretta e furia i propri stracci ed essere trasferito di punto in bianco chissà dove, per chissà quale motivo. Ed è sempre un trauma». Invece? «Il direttore mi fissa dritto negli occhi e mi rassicura: “Ma no, stia tranquillo: intendo dire se è contento di partire col lavoro. Da lunedì lei inizia ai capannoni”». Da allora la vita cambia: «Passa qualche giorno e sono convocato dal presidente del Consorzio che mi appoggia una mano sulla spalla e mi dice: “Non mi interessa quello che hai fatto fuori di qui, per me sei un dipendente, punto e basta. L’unica cosa che conta è che tu faccia bene il lavoro che ti viene affidato”». E lei? «Vi assicuro che questa frase, pronunciata in un ambiente duro come il carcere, ha avuto su di me uno straordinario potere disarmante. Per me è stata una vera e propria liberazione interiore, che mi ha aiutato anche ad accettare la mia pena in modo diverso, più consapevole». Marino fa il bilancio di questi primi quattro anni: «In tutto questo tempo mi sono sempre sentito un lavoratore normale: cosa del tutto naturale per un cittadino libero, ma assolutamente nuova e importante per un detenuto che, per quanto possa ostinarsi a sentirsi normale, sa benissimo di non essere più considerato tale dagli altri. Esco dalla cella alla mattina alle 8 per tornarci soltanto, quando faccio la giornata piena, alle 16,30. Il che di per sé già non è poco, perché una cosa è farsi la galera in maniera operativa e tutt’altra farsela in rassegnato letargo, passando il proprio tempo in cella, buttati sulla branda a guardare il soffitto. Inoltre sono assunto con il contratto nazionale delle cooperative sociali e percepisco quindi la stessa paga di un lavoratore libero».

E poi? «Mi sento parte di un progetto condiviso che ha per più immediato obiettivo la crescita aziendale, ma che ha anche un respiro più alto, trattandosi di un’iniziativa economica con una forte vocazione sociale». resta quel Mai scritto sul mio certificato di fine pena: «Chissà, magari un giorno...».

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