Il carcere ingiusto vale 200 euro ma deve pagarne 136 di tasse

Una notte, una sola per fortuna, in carcere. La cella soffocante, quasi claustrofobica, ad Ancona. I titoli dei giornali come becchi di avvoltoio. L’accusa, infamante, di aver esportato illegalmente quadri all’estero. Renato Raimondi, imprenditore marchigiano ormai sulla settantina, aveva una reputazione consolidata. Andò tutto in frantumi il 9 giugno 2008, con un arresto in flagranza che in realtà era un abbaglio. La polizia era convinta di aver messo le mani su un delinquente. Invece no. Ci pensa il gip di Macerata a fermare un’inchiesta fumosissima e inconsistente: il giudice si rifiuta di convalidare il provvedimento chiesto dal pm e lo rimette in libertà. I guai di Raimondi, però, non sono ancora finiti.
Giustizia e burocrazia vanno spesso a braccetto con risultati paradossali. E questa storia, che ormai va avanti in automatico da quasi due anni, è un concentrato di piccole grandi umiliazioni, distillate allo sventurato Raimondi con la puntualità di un farmacista. Umiliazione numero uno: la Corte d’appello di Ancona liquida per l’ingiusta detenzione subita duecento euro. Intendiamoci, ad applicare le tabelle matematiche previste dal ministero della giustizia, Raimondi avrebbe incassato poco di più: 235 euro. Ma non è questo, o meglio solo questo, il punto. Il battagliero avvocato Giampiero Cicconi aveva sottolineato la permanenza in quella cella troppo piccola e, soprattutto, il tracollo dell’immagine di Raimondi, fatta a pezzi dalla stampa marchigiana. Oltretutto l’imprenditore ha una certa popolarità nelle Marche per aver giocato centravanti nella Sambenedettese e nel Taranto degli anni Sessanta. Dunque, Cicconi si rivolge alla Cassazione per avere un briciolo di giustizia. E perché pretende che la dignità di Raimondi sia rispettata. La Suprema corte accoglie le sue osservazioni e le gira alla Corte d’appello d’Ancona perché si corregga.
Salirà, e di quanto, l’indennizzo? Nell’attesa ecco la seconda tegola, se possibile anche peggiore della precedente. Tramite Equitalia l’Agenzia delle entrate recapita a Raimondi una letterina e gli presenta il conto, frugando fra le spese dei ricorsi: 136,05 euro. «Dal foglio - spiega Cicconi - non è che si capisca granché. Ma si intuisce che l’Agenzia delle entrate ha sbagliato. Infatti la Cassazione aveva stabilito che tutte le spese di giustizia sarebbero state a carico dello Stato, dunque del ministero dell’economia». Invece, i duecento miseri euro rischiano una pesante amputazione. E l’errore di cui Raimondi è stato vittima prende i colori della beffa: tutto quel treno di avvilenti disavventure vale solo sessantaquattro euro scarsi?
La vicenda, invece di correre verso la conclusione, si complica e si divide in vari filoni. Cicconi manda una diffida all’Agenzia delle entrate per tamponare quella falla imprevista; intanto si aspetta sempre la nuova pronuncia della Corte d’appello sui soldi del risarcimento. Ma non è tutto. Raimondi deve convivere anche con una sottile inquietudine. Sì, perché dopo quasi due anni è ancora inchiodato a quel procedimento. L’indagine va avanti e per lui non è mai arrivata l’archiviazione. Certo, il gip non ha accolto la misura cautelare, ma gli accertamenti proseguono. E Raimondi non può ancora considerare questa storia al passato. Come un brutto ricordo. «Aspetto con pazienza - afferma lui rassegnato - tanto ormai mi sono ritirato dagli affari e sono solo un pensionato». La gente capirà. Se vuol capire.
Cicconi invece trattiene a stento l’indignazione: «Non capisco cosa stiano aspettando. Lui non c’entrava niente con quella storia di opere d’arte portate via dall’Italia. E trovo indecorosa tutta questa storia che non finisce di riservarci brutte sorprese. Prima, si mette in carcere una persona perbene, con una leggerezza sorprendente. Poi gli danno duecento euro come fosse andato in vacanza alla pensione Maria a Rimini. Infine, e lo trovo davvero incredibile, si prova a fargli pagare una tassa su quel risarcimento già striminzito». Non basta.

Perché Cicconi reputa intollerabile anche l’attesa, lunghissima snervante, della fine dell’inchiesta: «Raimondi non c’entra nulla e l’arresto non stava in piedi, però è legittimo che la magistratura faccia le sue verifiche. Ci mancherebbe. Ma in un tempo ragionevole. Qui passano gli anni e non succede mai niente. Cosa aspettano a chiudere una volta per tutte l’indagine?».

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