La carica dei «baby»: il golf non è (più) uno sport per vecchi

I risultati degli ultimi tempi, con le vittorie a raffica di giovani virgulti impegnati sui tour invece che sui banchi di scuola (ultima fra tutte quella del diciottenne coreano Noh), hanno definitivamente spazzato via ciò che ancora restava della patina polverosa di un giochino da sempre (erroneamente) considerato adatto solo a un’élite annoiata e soprattutto anziana.
Non solo.
La freschezza e la vivacità di questi enfant prodige ha riportato interesse e curiosità nei confronti di una disciplina all’interno della quale, escluso il solito Tiger Woods, negli ultimi anni le personalità carismatiche si potevano contare sulle dita di una sola mano.
Oggi, invece, grazie all’irruenza dell’irlandese Rory McIlroy, alla classe innata del giapponese Ryo Ishikawa o alla fisicità dell’americano Ricky Fowler, il golf sembra conoscere una seconda, meravigliosa giovinezza, indipendentemente dal ritorno o meno del suo numero uno.
Certo, sul Tour i giovani talenti sono sempre esistiti: basti pensare al Severiano Ballesteros degli esordi o, più recentemente, allo stesso Tiger, o, ancora, allo spagnolo Sergio Garcia. Ma si trattava sempre di casi isolati. Oggi, invece, assistiamo a un inevitabile, nonché radicale, movimento di «juniorizzazione» del golf professionistico.
Ora. La domanda è d’obbligo: da dove arriva questa ventata di gioventù?
«Innanzi tutto dall’aumento dei numeri dei praticanti - spiega Silvio Grappasonni, per anni giocatore di punta dell’European Tour e oggi voce narrante di Sky -. Dove crescono i numeri, soprattutto in Cina, Corea e Giappone, inevitabilmente si abbassa l’età dei campioni. Oltre a ciò, anche dal fatto che i ragazzi hanno capito che non ha più senso rimanere dilettante, seppur ad alto livello, per troppo tempo. Oggi si giocano le gare amateur dai 14 ai 18 anni e poi ci si proietta subito sui vari Tour».
Se dunque ogni mese dal sud est asiatico calano a bomba sui circuiti pro di mezzo mondo decine di under 20, lo stesso non si può dire degli americani, il cui atterraggio sul tour avviene un po’ in ritardo rispetto ai coetanei coreani o giapponesi: «Negli Stati Uniti - continua Grappasonni - molti ragazzi preferiscono ancora frequentare le università prima di azzardare il grande salto. Ma nei prossimi anni, con l’aumento e lo sviluppo delle Accademy di golf, l’accelerazione al professionismo si farà sentire prepotentemente anche lì».
E in Italia? I recenti successi internazionali del quasi diciassettenne Matteo Manassero e del quattordicenne Domenico Geminiani sembrano indicare che anche nello stivale sarebbe in atto una vera e propria rivoluzione copernicana, con il fitto sbarco di orde di ragazzini vocianti nel silenzio delle club house, fino a ieri terreno minato per i giovanissimi.
«In verità - spiega Grappasonni - da noi l’eccellenza c’è sempre stata, semmai sono mancati il movimento e la struttura. Oggi qualche passo in avanti c’è stato, ma siamo ancora in ritardo rispetto agli altri paesi europei».
La matematica, che è l’unica a non mentire mai, ci indica che nel 2009 in Italia i giocatori under 18 tesserati per la Fig erano circa 10.500, poco più del 10% degli affiliati totali. Numeri piccoli, certo, ma in decisa crescita se confrontati alle passate stagioni: nel 2000 il numero dei tesserati era infatti scandalosamente di poco superiore alle 5.000 unità.
A conferma del trend di ringiovanimento, va segnalato come il campionato italiano con il maggior numero di iscritti sia incredibilmente proprio quello riservato agli under 12.


Oggi, dunque, circa 1.600 ragazzi prendono regolarmente parte ai tornei dell’attività federale giovanile: tra questi, forse, «smazzano» già i nuovi Manassero. Ai tecnici della Fig, il compito (e il piacere) di scoprirli.

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