La forte componente narrativa di Carmelo Zotti che in questi giorni espone i suoi lavori alla rinnovata Permanente di Via Turati, promossa dal Gruppo Euromobil per la cultura, ci riporta al clima informale dei maestri Rafael Canogar, Alan Davie, Wols e Pierre Alechinsky, Philip Martin e Graham Sutherland. Una pittura, quella di questo noto insegnante dellAccademia di belle arti di Venezia e di Brera (sua città natale Trieste, classe 1933), allievo di Bruno Saetti che matura nel clima metafisico e surreale ma volto anche alla grande arte centroamericana e indiana dalla quale Zotti estrapola il suo repertorio iconografico. Dopo un primo confronto con la Pop art si afferma nei primi anni Sessanta alla Biennale per passare in seguito a una forte componente narrativa e per dirla con uno dei curatori della mostra, Flaminio Gualdoni «... più saviniano che dechirichiano Zotti appare negli anni Settanta con una sua lucida visione legata al sentimento più oscuro e mutante dellimmagine e, soprattutto per una meno esibita arte, senza togliere nulla alla sua teatralità. La mano, la sfinge, lelefante, la piramide, il magrittiano rubinetto-fallo, la mummia, langelo e poi Salomè, la Giuditta, Lazzaroe Orfeo, Venere e Cleopatra, Genesha e Mosè sono distinguibili e allo stesso tempo frutto di una meditata metamorfosi».
Negli ultimi anni della sua pittura, ha scritto nel catalogo edito da Skira Dino Marangon «... lartista si nutre di una più sensibile e immanente modulazione delle luci, dei timbri e delle tonalità cromatiche e a una più viva attenzione per la delineazione della consistenza plastica delle figure».
Come possiamo vedere nelle numerose tele in mostra fino a domenica in via Turati 34, non solo la sua mitica iconografia è dominante, ma anche la sua capacità di metabolizzarsi nellesperienza della pittura e della vita, ammesso che i due termini siano per questo straordinario artista effettivamente distinguibili. A partire dal 1964 Carmelo Zotti attinge dallavanguardia del secolo passato con una serie di dipinti dal titolo «Racconto». Lo snodo intellettuale e stilistico sta nellavere saputo cogliere il crocevia internazionale artistico tra gli anni Cinquanta e Sessanta proprio a Venezia allora capitale intellettuale del mondo dellarte. Natura e colore si mescolano in maniera violenta e prodiga come il coetaneo Piero Manzoni, ma il suo segno immediato dal colore inteso e acceso crea immagini essenziali di primaria potenza. «Gesto, segno, materia, sono il repertorio di Zotti che ha avuto sì una visione avanguardistica ma non in senso classico in quanto ogni tentazione dellartista cede a un retaggio realistico fantastico ed emotivo al tempo stesso», precisa Paolo Sandano, in arte Olinskj, uno dei suoi allievi più affezionati affacciato ormai da anni sul mercato europeo. Crispoldi, Sanesi e Tadini avevano tentato di porre in luce con una mostra romana quellintenzione esplorativa e di scoperta figurale e simbolica propria di Zotti. Corpi plastici invadono il campo e incombono sullo sguardo: stesure forti, spalti di colore pieni e in sovratono si compensano con una tessitura di memoria evocativa. La figura evoca infinite suggestioni, così pure il paesaggio è determinante. Dalle tele esposte si coglie anche la lezione Cobra e Dubuffet con dominanti fredde e colori impuri mentre il colore diventa liquido per librarsi nel segno. Il segreto di Zotti è anche la grafica alla quale affida «plurimi andamenti». La sua temporalità è mobile e il suo concettuale formarsi dellimmagine crea capolavori unici come i «Racconti», i «Purgatori». Non cè da stupirsi però se alla nostra mente possono affollarsi immagini di Kirchner, Kitaj, Blake e Hockney oltre a schematici interni matissiani e poi ancora se pensiamo guardando lantologica, a Bocklin e De Chirico.
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