Caro Gadda,
mi mandi pure qualche cartolina di prenotazione. Farò il possibile per «piazzarla». Ma il genere «vecchia signora» quassù non alligna; non si è mica a Milano: ci sarà di peggio (...)
Lavoro parecchio di filologia romanza. Ma la mia fiducia ha ricorsi periodici, come una sinusoide; minquieto (e non solo, sintende, in filologia romanza): sono poi davvero qualcuno, o meglio qualche cosa? o non esisto, effettivamente? E ho una paura pazza dellerrore, intanto che continuo a perpetrarlo; sento una umiliazione da peccato originale. Allora non dovrei più fare nulla; so di non meritare; e inizio, gratuitamente, una nuova apertura di credito. Ci sono costretto, in fondo: se no, come farei a vivere? Vede bene che non agisco in malafede. Ma il danno è che finisco a crederci per davvero; sebbene, fondamentalmente, lindividuo che ha meno stima di me sia proprio io stesso.
Passo, ho limpressione, per un mezzo Lucifero. Eh Cristo.
Lasci correre queste confidenze, che danno sempre un po fastidio al «destinatario»; o almeno imbarazzo. Non ci si può rimediare, come al pianto dei bambini. Speriamo, arrivederci.
PS. Vuol mandare (se non ha già provveduto) una copia del «Castello» a Giacomo Debenedetti (c.so San Maurizio 36, Torino). Io gliene ho parlato molto. E spero che leggerà volentieri il libro.
Domodossola, 7 giugno, 1934
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C aro Gadda,
(...) grazie della Sua lettera; e della intrepidità con la quale ha affrontato la lettura della mia prosa, impresa abbastanza acerba, pare, secondo un giudizio plebiscitario (si riferisce ad alcuni precoci scritti novecenteschi usciti su rivista, ndr).
Io mi diverto moltissimo, tanto più che quasi tutto quello che ho fatto appartiene alla preistoria di me; la cautela del pubblico (si cammina in punta di piedi, e si spegne la voce, nelle mie stanze) fa sì che quei qualunque prodotti oltrepassino, frattanto, me poveruomo, pieno di miserie, e tanto diverso dalla gelida riservatezza e soddisfazione che quelli devono far supporre.
Addio, caro Gadda; torni a scrivere e voglia bene al suo
Gianfranco Contini
Domodossola, 29 luglio 1934
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C arissimo,
in attesa di Ambrosiano (uno scritto di Gadda, ndr) comunico: che la sorella di Ardigò (Gadda e Contini sono stati a Cremona dai parenti materni del critico, gli Ardigò, ndr) si chiama infatti Dina, diminutivo di Adelaide, benché il nome ufficiale-anagrafico sia Elvira (in commemorazione, risulta, duna zia paterna morta sposa di tre mesi, e forse già en chemin verso la maternità). Ti comunico la particolare simpatia della Dina per te, ben partecipata da tutta la famiglia. Ma direi che siamo stati tutti, noi, loro gente agréable; e la Lombardia meridionale. Grazie per il valido contributo alla riuscita della mia settimana (Seguirono: dua altri giorni di Cremona; Crema, delusiva; via Pandino, Rivolta dAdda, con visite a cugini e cimiteri, e informazioni, che minvidierai certo, sui meticciamenti, sui tori frigidi o invertiti ecc.; Lodi vaghissima; e Milano per strada, con sosta dunora ivi e mia vana telefonata, venerdì alle due, al Rio de Janeiro).
Venerdì o sabato mi muovo per una settimana fiorentino-centrale, presumo.
Ciao e grazie ancora.
Gianfranco Contini
Domodossola, 27 marzo 1940
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Carissimo, averlo saputo prima, del disponibile Pierini (Pensione di Forte dei Marmi, ndr). Lascio passare lacme, e quasi certamente vi capito. Bastano dunque due giorni di preavviso? Conviene prendere un cocchio alla stazione del Forte?
Emergo da alcuni giorni di tenesmi (diarrea, ndr), con febbre relativa. Perciò ho cercato nel noto vocabolario del Cherubini alla voce scatologica per eccellenza, e ne ho ricevuto la sberla seguente: «Registro questa voce e parte della sua figliuolanza (non già tutta, ché troppa le ne concede il volgo) per semplice debito di vocabolarista.
La figliuolanza è rappresentata da «Lè minga m..., ma lha c..., el can», «Color de m... de pover», «Cinqu e cinqu des, tì la m...., e mì i scires».
Ciao, tuo
Contini
Domodossola, 11 agosto 1941
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