«Caro Mastella, il tuo posto è nel centrodestra»

Bossi non sarà alla Camera. Stefani e Cota: ci chiama di notte come ai bei tempi

Adalberto Signore

da Roma

L’appuntamento è per le 9.30 di mattina a Montecitorio. Cinque ore di attesa e poi, poco dopo pranzo, il terzo e penultimo via libera alla riforma federale tanto cara alla Lega. E questa volta senza nessun timore che le perplessità dell’Udc possano far breccia in qualche franco tiratore. «Sono sicuro che avremo la maggioranza necessaria per far passare la riforma», dice senza incertezze Silvio Berlusconi. Gli fa eco il ministro del Welfare Roberto Maroni: «Andrà tutto liscio come l’olio». Già, perché la devoluzione fa parte dell’accordo che ha portato la maggioranza a votare in blocco la riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Ed è dunque escluso che l’Udc possa avere ripensamenti.
Così, a creare un po’ di suspence ci pensa il ministro della Giustizia Roberto Castelli, che per oggi annuncia una «bella sorpresa». Qualcuno ipotizza si tratti del ritorno a Montecitorio di Umberto Bossi, la sua prima volta alla Camera dopo il malore dell’11 marzo 2004. Castelli sfodera un sorriso, allarga le braccia e ripete: «Ci sarà una bella sorpresa». E così, la vigilia del tanto atteso voto si concentra sui possibili movimenti del Senatùr. Perché a Roma lo vorrebbero rivedere tutti, leghisti e no, ma in pochi credono che ci sarà davvero. Di certo c’è che Bossi un pensierino su ce l’ha fatto, perché è ormai da qualche mese che ha ripreso a girare per convegni il pomeriggio e feste della Lega la sera. Soprattutto, ha ricominciato con le telefonate notturne ai suoi per farsi aggiornare su questo o quel provvedimento. «Non so se ci sarà - dice Stefano Stefani, sottosegretario all’Ambiente - ma l’importante è che non si strapazzi perché quando ci si mette... Pensi che ha ricominciato a chiamare la notte, alle tre, alle quattro». Conferma Roberto Cota, sottosegretario alle Attività produttive: «Eh sì, proprio come ai vecchi tempi. Segno che sta tornando quello di una volta». E così il Senatùr aveva pure pensato di fare un salto a Roma per il voto di oggi, anche per evitare che l’attenzione si concentri tutta e solo su Berlusconi (che sarà in Aula) facendo passare in secondo piano la paternità della riforma. Dopo più di un colloquio con Giancarlo Giorgetti, però, l’ipotesi - salvo novità di questa mattina - è stata accantonata. La «sorpresa» è rinviata a dicembre, quando ci sarà il voto del Senato, quello decisivo e anche il più delicato («lì abbiamo un margine di vantaggio di solo 12 o 13 voti», spiega il vicecapogruppo alla Camera Luciano Dussin). Ma oggi il Senatùr non sarà del tutto assente. I deputati del Carroccio si stanno infatti organizzando per festeggiare a modo loro subito dopo il voto. Niente striscioni in Aula, assicurano i leghisti, ma solo «un tributo al padre del federalismo». «La Lega - spiega il capogruppo a Montecitorio Andrea Gibelli - rivendica la paternità di questa riforma. Perché l’abbiamo voluta con forza e da tempo. Da quando nel 1979 nacque la Lega Lombarda che oggi è Lega Nord, il partito con la storia più lunga di tutta la Casa delle libertà».
E quanto il Carroccio tenga alla devoluzione lo si capisce dalle aperture arrivate negli ultimi giorni al presidente della Regione Siciliana Salvatore Cuffaro che aveva minacciato di invitare i parlamentari siciliani a votare contro la riforma se il governo non avesse riconosciuto «il diritto al federalismo fiscale sancito dallo Statuto regionale». Prima Maroni e ieri anche il ministro delle Riforme Roberto Calderoli, infatti, si sono «schierati al fianco delle sacrosante richieste di Cuffaro». Una posizione che rientra in una strategia più complessiva della Lega, decisa - miracoli della nuova legge elettorale - a iniziare a scendere sotto la linea del Po.

«Stiamo lavorando a una Lega del Sud - spiega il presidente federale del Carroccio Angelo Alessandri - che collabori con noi mantenendo una sua specificità. È il principio della tenaglia». È anche per questo che a fine ottobre sarà inaugurata la prima sede della Lega nella tanto odiata «Roma ladrona».

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