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Cartellone interlocutorio che getta le basi per un buon futuro

Com’era facile immaginare, la nuova stagione scaligera risulta, almeno sulla carta, senza una fisionomia particolarmente definita. Nominato sovrintendente e direttore artistico il 18 aprile scorso, in pochi mesi e senza trascurare impegni pregressi (Wiener Festwochen, Festival di Aix-en-Provence), Stéphane Lissner s’è trovato un programma già (parzialmente) disegnato da Mauro Meli e l’ha dovuto aggiustare o ripensare facendo i conti con mille e una contingenze. Chi poi si aspettava, nelle serate d’opera, un affollamento di bacchette stellari, appartiene alla schiera dei sognatori felici. E poi, oggi, approdati i Bernstein e i Karajan nei Campi elisi gluckiani assieme ai Celibidache e ai Kleiber, i grandi direttori è più facile perderli che trovarli. O trovarli liberi in 90 giorni.
Una crescita, dovuta non al caso ma alla volontà del neo sovrintendente, si ha invece nella statura dei registi in campo. «Registi non di immagini» - così Lissner - «ma di pensiero, senza per questo essere provocatori. Persone che riflettono sul percorso drammaturgico e, al pari dei direttori, sono capaci di interpretare i nostri tempi». Ad esempio Vick per l’Onegin da Glyndeburne con l’ottimo Vladimir Jurowski, Carsen per Katia Kabanova o Peter Mussbach col Don Giovanni diretto da Gustavo Dudamel: un ventiquattrenne venezuelano sconosciuto ai più del quale Claudio Abbado dice meraviglie.
Si parte dunque, nell’anno mozartiano, con Idomeneo, Daniel Harding e Luc Bondy (in via di definizione i cantanti). Harding ci impressionò moltissimo, acerbo ma talentoso 23enne, nel Don Giovanni di Peter Brook - lo spettacolo fu una creatura di Lissner -, portato al «Piccolo» di Milano nel ’98 e letto con uno slancio furioso e una vis teatrale da lasciare senza fiato. Riascoltato in tempi più recenti nell’Ottocento tedesco (concerti a Milano, a Salisburgo) ci è parso invece interprete meno affascinante e curiosamente dispersivo. Forse la sua vocazione è anzitutto teatrale.
Felicissimo è il ritorno di Riccardo Chailly che, dall’Olanda alla Germania, a settembre si insedierà al Gewandhaus di Lipsia. Torna col Rigoletto patinato di Deflo e nel 2006 inaugurerà la Scala con un’opera del grande repertorio italiano (per il Sant’Ambrogio 2007 è invece già fissato Tristan und Isolde, direttore Daniel Barenboim, regia di Patrice Chéreau).
Perché se questa stagione è forzatamente interlocutoria, getta però le basi per un operato a lungo termine e di respiro davvero notevoli: alcuni direttori che tornano ogni anno (Harding, Jurowski, Maazel, Chailly, Barenboim fra gli altri accanto a più giovani bacchette: niente direttore musicale «in quanto Muti è assolutamente insostituibile»), l’avvio del «progetto Janacek» (si prosegue con Jenufa per terminare con Da una casa di morti), l’approfondimento del Novecento come «teatro cui ci stiamo abituando» e dai titoli importanti, la commissione di lavori nuovi, teatrali (Fabio Vacchi) e sinfonici (Ivan Fedele) sino all’opera 1984 di Maazel, omaggi alla grande tradizione scaligera, gli allestimenti di Strehler in testa, e attenzione al nuovo. Perché Lissner sa coniugare entusiasmo e cautela, rigore e rischio, voglia di avventura e piedi in terra, schiettezza e diplomazia, «niente arroganza e apertura massima alle istituzioni».

Quando poi parla di teatro come «vocazione pubblica» e modo di «trasmettere il sapere» (il «fare cultura» che auspicava Muti), quando definisce la Scala non come il «il primo e incontrastato tempio eccetera» ma come «uno dei più importanti teatri del mondo» ci fa sperare che la mentalità scaligera cambi. Auguri a lui e se avverrà, buon per noi.

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