Casini e Pomicino? Litigavano sui soldi

Gian Marco ChiocciMariateresa Conti

Il capitoletto si intitola «La storia dei due miliardi a Casini». E racconta il giudizio impietoso di un politico della Prima Repubblica su un collega pure della Prima Repubblica che però, a differenza sua, quando si parla di finanziamento ai partiti fa la verginella. «Un codardo», è il bollo del più anziano. Un «codardo», il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, con cui Geronimo, al secolo Paolo Cirino Pomicino, adesso va a braccetto, in una campagna acquisti di parlamentari, pardon, quella la fa Berlusconi, la transumanza dell’onorevole dal Pdl al centro si chiama presa di coscienza, che a Pomicino ha fatto guadagnare il titolo di Moggi della politica.
Flirtano, oggi, ’O ministro e Pier Ferdy. E ’O ministro se la prende con Il Giornale e Libero che non lo stanno applaudendo per lo scippo di deputati al Cav, e scrive, in una lettera ai direttori: «Ragazzi, ma che vi succede? Ieri l’uno e oggi l’altro mi avete fatto lo stesso identico attacco politico utilizzando la solita arma dell’ingiuriae tentando di coinvolgere anche Casini mettendoci insieme, l’uno in una vignetta e l’altro in una foto volendo alludere così al velenoso contagio della prima Repubblica al leader dell’Udc».
Nessuna ingiuria qui. Nessun attacco. Solo un promemoria di quello che Pomicino pensava e scriveva, nove anni fa, di Casini. Anno di grazia 2002, «Dietro le quinte, la crisi della politica nella Seconda Repubblica», firmato Geronimo. Ecco, da pagina 16, il resoconto di un’udienza del processo contro Giovanni Prandini, accusato di corruzione, udienza teatro di una sfilata di testimoni eccellenti. Prandini aveva sempre cercato di difendere i suoi amici, dalla Iervolino, sentita anche lei quel giorno, a Casini. Ma Pier Ferdy, per Geronimo, la verità non l’avrebbe detta: «Quel 19 ottobre 2000, al tribunale di Roma, c’è anche Pier Ferdinando Casini. E bisognerebbe aver sentito quella testimonianza, o leggere quei verbali, per capire la statura morale e politica di Casini. Anche Pier Ferdinando, balbettando, non ricordava quasi nulla dei contributi che la sua corrente riceveva, e anzi non mancò di sottolineare una sua antica e sottile polemica con Prandini. Nemmeno Maramaldo (tu uccidi un uomo morto) avrebbe saputo fare di meglio». Prandini aveva cercato di salvare la baracca, tacendo coi magistrati. Però, di fronte alle accuse, era stato costretto a presentare dei documenti. «Uno – scrive Pomicino – riguardava proprio Casini, che nel biennio 1990-92 aveva raccolto e girato nelle casse della corrente due miliardi di contributi, versati da alcuni imprenditori notoriamente vicini alle sue posizioni politiche (negli atti ci sono anche i nomi). A dire il vero – continua Geronimo – Pier Ferdinando aveva raccolto molto di più. La regola dell’area forlaniana era che ogni parlamentare teneva per sé, cioè per le esigenze del suo collegio, un terzo dei contributi ricevuti. Un terzo lo girava alla corrente e un terzo lo girava al partito centrale». Riflettendo su quel comportamento omissivo, Pomicino si lascia andare: «Provo sempre molta amarezza quando uomini politici che pensano di essere grandi non hanno il coraggio delle loro azioni. Casini, come Prandini, non è un ladro, e non si è arricchito: ma ha finanziato se stesso, la sua corrente, il suo partito, la politica democratica di questo Paese». Ragion per cui «avrebbe potuto spiegarlo quel 19 ottobre 2000 al tribunale, tanto più che non era nemmeno indagato. Non si tratta di fare gli eroi, ma semplicemente di non essere codardi: chi lo è una volta, infatti, lo sarà purtroppo per sempre, perché il coraggio, come diceva Don Abbondio, se uno non ce l’ha non se lo può dare. Senza contare che mentire a un tribunale della Repubblica in qualità di teste è incompatibile con qualunque ruolo istituzionale». Detto fatto. Otto mesi dopo Casini diventa presidente della Camera: «Sono stato molto contento quel giorno – annota Geronimo – ma mi sono subito tornati alla mente anche la storia di quei due miliardi, i suoi colpevoli silenzi, le sue inutili reticenze, e le sue grossolane bugie di fronte a un tribunale. E ho pensato che forse anche questo era il segnale di una stagione in cui la politica aveva cambiato pelle».
Per capire quanta stima il Pomicino di allora nutrisse per il leader centrista, bisognerebbe leggere il capitolo dedicato, sempre in Dietro le quinte, al suocero di Casini, Francesco Gaetano Caltagirone, laddove Geronimo fa sua la definizione ironica ascoltata da Berlusconi: «Casini è il testimone vivente dell’inutilità della televisione, perché lui ogni sera è in tv e ha costruito un partito che non supera il 3 per cento».

Geronimo ricorda il potere di fare alleanze con il mondo imprenditoriale che deriva al leader centrista dall’avere alle spalle un uomo potente come Caltagirone. E prevede, guardando lontano: «Questa consapevolezza lo spingerà sempre più ad allargare la base del proprio partito per puntare a essere l’erede di Berlusconi». Appunto. Con l’aiutino, oggi, di Geronimo.

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