Uno che, ammissione sua, ladolescenza lha passata mica in discoteca, ma ad allevare piccioni, «anni di meditazione silenziosa osservandoli», e dopo tre figli con tre donne diverse ancora sarrovella sullarte e sulle sconvenienze del diventare adulti, è chiaro che o ne sa più degli altri o ancora non sa dovè girato. Questione di punti di vista, ma almeno una cosa Gabriele Muccino deve averla imparata. E cioè che in Italia, se vuoi mantenerti il ruolo di regista osannato non conta che tu lo abbia guadagnato sul campo, pardon, al botteghino: devi darti unaura un po sinistrorsa e molto radical, e la via più breve per farlo, si sa, è sparare su Silvio Berlusconi. Anche se lavori per Medusa, già Silvio Berlusconi Communications, oggi controllata da Mediaset, eppure sei libero di dire quel che vuoi.
Benvenuti sul set di Muccino, tornato in Italia dai successi hollywoodiani (anche) per dire la seguente cosa: «Siamo tutti costretti al silenzio: appena uno prova a parlare viene promulgato un editto, che sia bulgaro o di ovunque il premier si trovi». Bum. Devesser per questo, che lui si ostina a parlar damore e dintorni. Dieci anni fa aveva sfornato Lultimo bacio. Dieci anni dopo ci ha ripensato, scusate, facciamo che era il penultimo, e per spiegare il perché abbia deciso di propinarci che fine abbiano fatto gli allora speranzosi trentenni oggi nevrotici quarantenni con Baciami ancora si autoparagona ai grandi dei sequel, dallIngmar Bergman di Scene da un matrimonio al Denys Arcand de Il declino dellimpero americano ma anche un pochino a Woody Allen e a Oliver Stone, che fanno sempre effetto. Non si prende la briga di sfatare letichetta che in molti, stroncando il film, gli hanno appiccicato lappellativo di fighetto della borghesia radical chic romana. E infatti per lanciare il suo anatema sceglie le ultime righe di unintervista leggera al mensile un po nicchia un po pop GQ, Gentlemens quarterly. In copertina cè Giovanni Soldini, a pagina 46 ci sono autori televisivi e giornalisti che si fanno fare il restyling del look, a pagina 57 una commessa 23enne che sogna di fare la pornodiva. Poi arriva lui.
Racconta come è sopravvissuto negli States col suo scarso inglese, si domanda perché mai suo fratello Silvio, lattore, da due anni non gli rivolga la parola, sviscera leterna maschia sindrome di Peter Pan con concetti originali tipo: «La fuga dalla famiglia è istinto di natura». Poi la butta lì. In Italia cè il regime e lui ha le prove: il premier, avverte, «ha già fatto fuori tanta gente: ha cominciato coi giornalisti e ha finito coi giudici». Inutile farne i nomi, la frase è a effetto così, e che importa se a cercarli, i nomi, non esistono. Muccino ormai è lanciato. Cita «la classifica sulla libertà di espressione di Reporters sans frontières»: «il nostro Paese è cinquantesimo». Giura che «a Londra, Parigi, negli Usa siamo derisi da tutti». Il tocco finale è da vero maestro del cinema e va letto dun fiato, con voce rotta: «Io amo lItalia incondizionatamente e non posso accettarlo senza provare un profondo dolore. Voglio pensare che la luce in fondo al tunnel si torni a vedere presto, altrimenti non potrò far crescere qui i miei figli».
E sarebbe in effetti una complicazione, questa, soprattutto per lui, Muccino, che qualche riga prima diceva che gli squali di Hollywood li ha affrontati con la forza di chi sa che «cè sempre un volo Los Angeles-Roma», e quindi signori: «Se non vi piace, me ne torno in Italia». Sempre che non arrivi leditto.
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