«Il caso della Lexie? Come l’Achille Lauro»

Nelle 196 pagine dell’atto d’accusa contro i marò, gli indiani infilano anche una polpetta avvelenata: per contestare uno dei più forti argomenti contro la detenzione dei soldati italiani e la natura stessa dell’inchiesta indiana, si appellano a una convenzione sul diritto del mare firmata proprio a Roma. Il trattato prevede che il singolo Stato possa estendere le proprie azioni ben al di là delle acque territoriali, in caso che una propria nave stia subendo un’azione illecita.
Per dar forza alla propria posizione, gli indiani mettono nero su bianco tanto di argomentazione «storica»: «La preoccupazione riguardo atti illegali che minacciano la sicurezza delle navi e dei loro passeggeri è cresciuta durante gli anni 80, e ha spinto gli Stati a negoziare e ad adottare questa convenzione. Una preoccupazione nata da una serie di atti criminosi (...) e specialmente dal rapimento nel 1985 della Achille Lauro». Ed ecco l’affondo che sa di beffa: la convenzione a cui gli indiani si appellano per giustificare l’intervento in forze fuori dalle acque territoriali (la Lexie fu attirata in porto con l’inganno, ma anche sotto la scorta armata di un elicottero militare indiano) fu voluta proprio dall’Italia, a seguito del rapimento dell’Achille Lauro da parte dei terroristi palestinesi.


Con una sorta di sberleffo giuridico, dunque, gli indiani si attaccano a una norma di diritto internazionale voluta proprio dall’Italia, facendo finta di non vedere la forzatura: con il loro ragionamento, finiscono per equiparare l’azione di un commando terrorista a quello di una squadra di un esercito regolare straniero, la quale per di più sta agendo in forza di un mandato conferito da accordi internazionali.

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