Con la sua sentenza di ieri la Corte di Cassazione, più che stabilire quando dare del «fascista» è offensivo e quando no, ha confermato una volta di più che noi italiani siamo incapaci di discutere seriamente di quel nostro passato. Quando siamo chiamati a farlo, o cadiamo nella tronfia retorica, o diamo fiato ai tromboni dei voltagabbana, oppure ancora scadiamo nel grottesco, nella barzelletta, nei film di Totò.
I tedeschi sono sopravvissuti al nazismo cercando di rimuoverlo con un doloroso silenzio: forse non è stata la scelta più giusta, ma almeno fa trapelare una certa dignità che noi non dimostriamo. Probabilmente la differenza era scritta nel Dna delle due dittature: spietata quella tedesca, «temperata dallinosservanza delle leggi» (come diceva Leo Longanesi) quella italiana; cupa e macabra quella di Hitler, un po da operetta la nostra, con la sua maschia gioventù e gli immancabili destini.
Sta di fatto che la decisione della Suprema Corte sembra certificare il destino bizzarro che ha avuto nel nostro Paese un termine, «fascista», che comunque la si pensi dovrebbe essere archiviato come qualcosa di serio.
E invece. Mai aggettivo (e sostantivo) ebbe vita più ballerina di «fascista». Negli anni ruggenti non definiva soltanto chi aderiva al partito. Non era neppure sinonimo di chi, politicamente, stava dalla parte giusta. No: fascista era tutto ciò che era bello, era audace, era virile; tutto ciò che esprimeva giovinezza, saggezza, onore, onestà. Anche il sole era fascista. In questi giorni la Gazzetta dello Sport ha ristampato le copie uscite nel 1934 e nel 1938 in occasione delle due vittorie italiane ai mondiali di calcio. È uno spasso rileggere quelle cronache. «Fasciste», naturalmente, erano le due vittorie; ma fascisti anche i cross, gli assist, i dribbling riusciti; e «fascistissimi» i goal, anzi le reti, perché la lingua straniera era bandita in favore di quella italiana, essa pure - naturalmente - fascistissima.
Bastò un attimo perché il termine non solo si svalutasse ma diventasse di colpo un marchio dinfamia. Dalloggi al domani ogni cosa si rovesciò nel suo contrario, e per etichettare tutto ciò che era probo e onesto bisognava dire «antifascista». Un vocabolo che acquistò seduta stante la stessa forza tranchant, la stessa efficacia escludente che per ventanni aveva avuto «fascista». Una nuova retorica e una nuova intolleranza che fecero dire a Flaiano che in Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti.
Ma se il termine «antifascista» fu fin dallimmediato dopoguerra il lasciapassare per cose e persone, il vocabolo «fascista», passato il primo dopoguerra, andò in sonno. Per un paio di decenni abbondanti, quella parola semplicemente non venne pronunciata. Fu negli anni Settanta che «fascista» diventò - naturalmente solo sulla bocca dei conformisti, che però sono maggioranza per definizione - la parola dordine per definire ogni porcheria. Si dava del fascista non solo a chi lo era; e neppure solo ai prepotenti, ai prevaricatori, agli arroganti. Lo si dava anche al professore che non ti dava il sei politico, allautomobilista che ti tagliava la strada, a chi lasciava che il suo cane sporcasse il marciapiedi.
Adesso devono aver ragione Michele Serra e Giorgio Bocca, i quali dicono che è in atto una rivincita dei reazionari: perché in fondo i fascisti non sono più nelle fogne, e perfino la Cassazione assolve un tizio che aveva apostrofato in quel modo, «fascista», uno che gli stava sullanima. Però - e torniamo a bomba - siccome in Italia non riusciamo a risolvere i conti con il nostro passato senza cadere nel ridicolo, ecco che la Cassazione sdogana, sì, ma solo a metà: «fascista» non è un insulto se lo urli in faccia a un politico, ma lo rimane se è indirizzato a un privato cittadino.
È una soluzione bipartisan, come si dice.
Michele Brambilla
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