Il Cav: chiarezza o si va a votare Ma Gianfranco: discorso tardivo

Succede nel chiuso di una commissione, e su una materia oscura denominata fondi Fas. E però lo scossone, per il centrodestra, è violento: sulla legge finanziaria, quindi sul provvedimento più importante che il Parlamento sia chiamato a vagliare ogni anno, la maggioranza ieri pomeriggio è svanita. Un emendamento del Mpa, sul quale il ministro Tremonti aveva messo il veto, è passato con i voti dei finiani, uniti a quelli delle opposizioni di Casini, Bersani e Di Pietro. È finita 24 a 22, con Pdl e Lega in minoranza.
L’emendamento, di per sé, non è epocale: serve soprattutto al fronte «sudista» di Mpa e futuristi per dare un segnale di contrasto alla Lega, chiedendo la ridestinazione dei fondi comunitari per le aree sottosviluppate alle regioni del Mezzogiorno. Ma il messaggio politico del voto di ieri è inequivocabile: il governo è ormai ostaggio delle maggioranze variabili che si possono creare in Parlamento, con Fini, novello Ghino di Tacco, a fare da ago della bilancia, anche sui conti dello Stato. Il Pd esulta, annuncia che «il governo è finito» e sottolinea che il voto dimostra l’esistenza di una maggioranza alternativa, in grado di impedire quel che più si teme da quelle parti, visti i sondaggi impietosi e l’incalzante concorrenza interna di Vendola e dei «rottamatori» del sindaco di Firenze Renzi: le elezioni anticipate.
L’incidente di ieri in commissione era ampiamente previsto, tant’è che il voto è stato rinviato di ora in ora dalla sera di mercoledì, mentre fervevano le trattative. E, per dare un’idea del clima nella maggioranza, dopo lo scivolone si sono diffusi sospetti di ogni genere, anche i più fantasiosi: su Giulio Tremonti, che secondo alcuni esponenti del Pdl avrebbe rifiutato le mediazioni offerte dal Mpa, tenendo ferma la linea del rigore, per arrivare allo scontro finale con i finiani e aprire la strada alle elezioni. O sul presidente leghista della commissione, Giancarlo Giorgetti, che avrebbe fatto votare l’emendamento prima che la mediazione fosse raggiunta. Sta di fatto che ora il governo deve scegliere se cedere e aprire le porte della finanziaria alle richieste di modifica dei finiani, o se blindare con la fiducia il testo originario, andando allo scontro duro in aula con un pezzo della sua maggioranza.
Il tutto è accaduto mentre Berlusconi, dal podio della direzione Pdl, offriva - sia pur a malincuore - il suo ramoscello d’ulivo ai finiani, invitandoli a stringere un patto programmatico per mandare avanti l’esecutivo. Fini non ha ancora deciso che fare, e il pressing contrapposto delle diverse anime di Futuro e libertà rende ondivaga la rotta del vascello presidenziale. Domenica, a Perugia, tutti si aspettano qualcosa di forte da lui, e qualcosa di forte andrà pur detto.

Ma quale cosa, tra rottura, ultimatum programmatico al governo o la via di mezzo dell’appoggio esterno (posto che si riescano a convincere i diretti interessati, ossia i finiani nell’esecutivo, a dimettersi) ancora non è chiaro.

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