Controcultura

Cavaglieri, l'arte difficile di essere un vero dandy

A Venezia, le opere del pittore che dipinse la società travolta dal primo conflitto mondiale

Cavaglieri, l'arte difficile di essere un vero dandy

La mostra, organizzata a Venezia dalla Milanesiana per impulso di mia sorella Elisabetta, offre l'occasione di ricordare quanto aveva affermato Raffaele Monti, il più appassionato fra gli studiosi di Cavaglieri, in occasione di una mostra alla Galleria dello Scudo a Verona nel 1993: «Per favore, non parliamo di riscoperta di Mario Cavaglieri». Già a quei tempi solo i più disinformati o distratti avrebbero potuto non conoscere un artista che, per sua fortuna, aveva sempre goduto di una sufficiente considerazione, anche se fuori dai circoli artistici ufficiali, malgrado scelte di vita che lo avevano portato a godere di un aureo isolamento, indifferente al caos del mondo. Mario Cavaglieri non è artista che ha bisogno di prodigiosi recuperi, di mea culpa generalizzati da parte di critica e pubblico. Male per chi non se ne è mai accorto. È vero che Cavaglieri è sempre stato noto, ma lo è stato per un pubblico selezionato di critici e artisti, anzi per un certo tipo di critici, nella favorevolissima convergenza fra due «grandi critici» come Longhi e Ragghianti, e per un certo tipo di artisti, con particolari formazioni, e predilezioni. Ci si è compiaciuti di questo elitarismo, lo si è alimentato e custodito quasi con gelosia, forse pensando, in questo modo, di interpretare al meglio le stesse disposizioni di Cavaglieri. In coloro che lo conoscevano, verificare in un interlocutore la sola confidenza con il suo nome poteva fare avvertire nei suoi confronti una vicinanza fraterna o una lontananza abissale, fra un mondo e un altro, un gusto, una sensibilità.

Nella mia casa di famiglia, a Ro Ferrarese, possiedo, fra gli altri, un dipinto straordinario di Cavaglieri, appeso in una zona un po' appartata, sul muro della scala che conduce al piano superiore. A Ro ho tante belle opere, tanti nomi assai più famosi di Cavaglieri, ma molti di coloro che visitano la casa per la prima volta, soprattutto se hanno buone conoscenze di storia dell'arte, si soffermano lungamente davanti a quel dipinto. Vengono attirati, rapiti dal suo vigore espressivo davvero travolgente, dall'intensità del colore, dagli spessori inusitati, «strabocchevoli», accentuati nella loro evidenza dalla craquelure che il tempo ha determinato, evocatori di un prezioso interno alto-borghese che si riconosce a stento, dissolto nella varietà e nella complessità di una texture che finisce per prevalere su ciò che rappresenta, diventando uno spazio totale e totalizzante, ambiente che satura completamente l'orizzonte, non solo visivo, anche per la forzata visione ravvicinata, quasi che non fosse percepibile alcuna soluzione di continuità fra ciò che è dentro e ciò che sta fuori il dipinto. Non nascondo di avere provato una forma di bonaria commiserazione quando, nell'informare che si trattava di un'opera di Cavaglieri, ricevevo in cambio imbarazzati silenzi, come se chi la vedesse non conoscesse quel nome, o ne sapesse troppo poco. E lo stupore si aggiungeva subito all'imbarazzo dopo che riferivo la data di esecuzione dell'opera, 1916, quando chi la vedeva avrebbe pensato, il più delle volte, a un'epoca molto più vicina all'Informale, all'Astratto Concreto, all'Espressionismo Astratto, magari credendo che in quegli anni solo il Futurismo e la Metafisica fossero in grado di generare in Italia pittura così evoluta. Credo che, per Cavaglieri, ma anche per tutta l'arte italiana del Novecento, sia venuto il momento di togliere il circolo vizioso per il quale l'indubbia nobiltà della sua pittura, elemento certamente importante nel determinare l'idea dell'arte che la sorregge, debba corrispondere all'aristocratica ristrettezza numerica di coloro che l'apprezzano.

Straordinario, il Cavaglieri degli anni Dieci e Venti. Straordinario il modo in cui, con la genuinità d'approccio del provinciale diventato uomo di mondo, imparando a non soffrire più alcun complesso d'inferiorità, con la spregiudicatezza del non professionista, da dilettante di genio, da dandy, dedito ai piccoli-grandi piaceri della vita mondana, con la libertà d'azione del «non militante», riesce a individuare una propria strada nella grande linea maestra del Post-Impressionismo francese, quella dei Nabis e dei Fauves in particolare, senza rinnegarli, proponendo varianti autonome, sviluppando direzioni parallele, ma non convergenti. Alla base di questo passaggio, una formazione anomala rispetto alla quale Parigi, conosciuta finalmente nel 1911, aveva paradossalmente frenato e regolato piuttosto che rivelato e liberato. Il primo serio rapporto con la pittura avviene attraverso il padovano Giovanni Vianello, presso il quale studiava anche un altro dilettante di genio, allora studente di giurisprudenza, promettente pianista, Felice Casorati. A Padova, quasi nello stesso momento di Cavaglieri e di Casorati, si trova anche Umberto Boccioni, nel pieno del travaglio di un «cerco ma non trovo» che lo porterà, di lì a poco, ad abbandonare in modo clamoroso «i campi, la quiete, le casette, il bosco, i visi rossi e forti, le membra dei lavoratori, i cavalli stanchi, ecc, tutto questo emporio di sentimentalismo moderno...» (Diario, 14 marzo 1907). Giovanni Vianello è artista più tradizionalista, «sentimentale», ma sufficientemente aperto per comprendere e fare comprendere che in Italia il problema artistico del momento è il passaggio dall'Ottocento al Novecento: da una parte si prospetta, soprattutto da quella dei più giovani, la necessità di un nuovo processo di aggiornamento e internazionalizzazione, guardando innanzitutto a Parigi, ma anche a Vienna, a Monaco di Baviera, a tutta l'Europa coinvolta in analoghi fermenti; dall'altra si teme che questo processo possa compromettere il carattere nazionale faticosamente conseguito dalla congiunzione delle esperienze locali di Macchiaioli, Veristi e Paesaggisti lombardi, ovvero la via italiana all'arte moderna ottocentesca, con un occhio in fondo non troppo malevolo nei confronti della tradizione, già minacciata dall'accelerazione imposta dal Divisionismo più recente.

Cavaglieri prende atto di questo status quo e, da giovane, decide di imboccare questa strada dei giovani, quella più «internazionalista». Si tratta di una scelta definitiva: da questo momento in poi, Cavaglieri si libera di ogni debito nei confronti dell'Accademia, chiaramente avvertibile nei lavori realizzati a contatto di Vianello, per assumere una forte coerenza anti-classica e «anti-latina», fra le più vere e solide di tutta l'arte italiana del suo tempo, e ciò gli sarebbe costato non solo l'abiura dalla critica più ufficiale e conformista del Ventennio, ma anche da una parte di quella del Dopoguerra, tanto più in corrispondenza della riabilitazione critica di Valori Plastici e di Novecento.

Fra il 1913 e il 1918, «esplode» la nuova pittura di Cavaglieri. Sono «anni brillanti», come sono stati chiamati, che si contrappongono sfrontatamente a uno dei periodi più bui della storia dell'umanità, gli anni della Grande Guerra, come qualche critico del tempo fa notare, a sottolineare la sostanziale indifferenza di Cavaglieri alla storia, alla società, a una dimensione artistica che non sia strettamente individualistica e autosoddisfacente.

Dopo il 1916, sono anche anni di improvviso distacco da Giulietta Catellini, che a Cavaglieri preferisce un anziano e ricco piacentino, il conte Marazzani Visconti. Sono condizioni che stimolano Cavaglieri, invece di demoralizzarlo: il rapporto con il proprio universo decadente diventa più intricato e viscerale, quasi ossessivo, come se avvertisse la fine imminente di un certo mondo e volesse da esso tutte le forze residue che potessero ancora gratificare i sensi e lo spirito. Gli interni, inquadrati in un modo più ricercato che in passato, atipico, quasi fotografico, sono ricchi ora di energia incandescente, dai molteplici riverberi cromatici, omologhi visivi dei contrappunti musicali, spazio empirico e assoluto, talvolta a un passo dall'astrazione. Straordinario: nessuno, in questo momento, può tenere il passo pittorico di Cavaglieri, nessuno riuscirà a farlo prima del secondo dopoguerra. E tutto ciò in un momento in cui il dramma del primo conflitto mondiale stava già determinando clamorosi passi indietro di ex-rivoluzionari, rappel à l'ordre che annuncia nuove intenzioni classiciste.

Cavaglieri vola per proprio conto, alto, altissimo, indifferente a ciò che gli succede attorno.

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