Milano - «Ciò che fa l'originalità di un uomo è che egli vede una cosa che tutti gli altri non vedono», diceva Nietzsche. E Roberto Cavalli ne ha viste di cose in quarant'anni di carriera. I successi li racconterà attraverso la sfilata di Milano, il 27 settembre all'Arco della Pace, mandando in passerella i pezzi iconici del suo stile. E in occasione della cena di gala a Parigi, Ecole Superieure des Beaux Arts, il 29 settembre, con la presentazione di un elegante volume che ripropone gli abiti più straordinari del suo archivio fotografati da Mert&Marcus. Nei negozi arriverà, invece, una lunga teoria di prodotti "Anniversary": dai jeans Saint Tropez al nuovo orologio in edizione numerata. Lo incontriamo alla vigilia delle celebrazioni e la verve, il carattere forte, ci consegnano l'immagine di un uomo appassionato, visionario e sorprendente, metà artista metà poeta.
Quarant'anni di successi: chi ringrazia?
«Il minimalismo e mia moglie. Il primo ha aperto la strada alla mia moda sensuale. Eva non è mai stata una semplice musa ma una donna verso la quale nutro un profondo affetto».
Quando ha cominciato?
«Nel 1970 quando, trentenne, ero un disgraziatello fiorentino senza una lira, felice d'aver inventato la stampa su maglieria. Cominciai a lavorare venti ore il giorno e a guadagnare. Dopo alcuni anni avevo una bella fabbrica e cominciai a "scarabocchiare" sulla pelle».
Si sentiva arrivato?
«Fu un periodo meraviglioso: belle ragazze, sfilate a Parigi e tanti bravo. Dal punto di vista economico, però, la situazione era tragica: ciò che guadagnavo con la stamperia lo rimettevo con la moda. Poi mi venne l'idea di unire pezzi di jeans vintage alla pelle stampata. Da qui una serie di modelli che ebbero un successo strepitoso. Cominciai a sfilare nella Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze con i grandi».
Poi arrivarono gli anni Ottanta…
«E con loro gli stilisti giapponesi, fautori di linee architettoniche ma a torto chiamati minimalisti. Certo le mie stampe erano lontane anni luce da quel mondo. Nel frattempo avevo conosciuto Eva. Ero felice con lei, mi aveva regalato dei figli, avevo con la mia moda e la mia stamperia quel tanto che mi consentiva di vivere bene. Nei primi anni Novanta, quando lo stile giapponese si trasformò in vero minimalismo e in marchi che mortificavano la femminilità, ne soffrii».
E pensò di smettere…
«Sì, perché ero frustrato dall'idea che la moda non riuscisse a valorizzare la donna. Chiamai i sindacati per concordare la chiusura. Ma quella mattina Dio mi regalò l'incontro con un produttore di Prato che avrebbe cambiato il mio futuro: gli chiesi di fare ricerche per applicare il trattamento stretch al denim. Dopo giorni arrivarono i campioni: mi piacquero, li stampai e li invecchiai con la carta vetrata. Presentai questi jeans al Modit di Milano: era il 1994. Grazie al tam tam, il secondo giorno c'era la coda fuori dallo stand. Un successo strepitoso».
Già, il successo…
«Non l'ho mai voluto e sebbene ora non me ne lamenti, ne avrei fatto a meno perché è come una droga: ti distrugge la vita, la possibilità di essere un buon padre e la famiglia. Tornassi indietro, rifarei ciò che ho fatto perché è un'esperienza meravigliosa, ma gestirei in maniera diversa…»
Cadere e rialzarsi: come si ricomincia?
«La vita è tutta un up and down. Dopo quarant'anni di lavoro, però, non meritavo un down per colpa d'altri. Parlo della vicenda indecente di Ittierre. Nonostante l'intervento dei commissari del Governo, l'azienda e tutto quello che girava intorno compreso la mia linea Just che registrava incrementi di fatturato del 100 per cento ogni anno, sono stati rovinati da chi non ha saputo gestire. In Italia va in galera chi ruba una mela per fame, ma circola liberamente chi ruba miliardi: dov'è la persona che ha causato questo disastro?»
È vero che parla con Dio ogni sera?
«Veramente lo faccio ogni minuto ma non prego perché sono anti-religione e apolitico.
È felice?
«Sono consapevole. Sento molto calore e molta amicizia intorno a me e penso che l'amore che ho dato, alla fine mi ritorna».
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