Cento writer all’opera trasformano la Bovisa in una tela colorata

Luca Moriconi

«Io sono Andrea. Ma qui puoi chiamarmi Mr WanyUes, è il mio nome d’arte». Benvenuti nel mondo dei writer, volgarmente chiamati graffitari. Ieri un centinaio di «artisti del muro» si sono dati appuntamento in zona Bovisa, lungo il sottopasso di Villapizzone, per dare il via alla prima fase di «Bovisa in linea», l’iniziativa promossa dall’amministrazione comunale insieme alla Fondazione Triennale, un grande happening di arte di strada su 2.500 metri quadrati di parete a ridosso del nuovo polo per l’arte contemporanea a nord di Milano.
Bombolette e pennelli in una mano, fogli con alcuni schizzi pronti sull’altra: eccoli i ragazzi che dipingono i muri con gli strani disegni diventati oramai vere e proprie opere d’arte. «Queste - spiega Andrea/Mr WanyUes indicando il suo graffito - sono lettere dell’alfabeto che noi rielaboriamo e interpretiamo. Io ho una passione per i fumetti e le arti visive, qui non improvviso niente». Ventotto anni, originario di Brindisi, Andrea ha disegnato quasi per gioco il suo primo graffito nel 1990. Oggi è uno dei writer più attivi nel panorama nazionale con convention, mostre ed eventi che lo hanno portato da Roma a Milano e da Milano ad Amsterdam, Barcellona, Parigi e Zagabria. Perché questi writer non sono i vandali dei monumenti: sono professionisti che hanno saputo trasformare la loro passione in una forma d’arte metropolitana. «Noi non andiamo in giro a imbrattare - ci tengono a dire - oggi fare i graffiti è avere opportunità come questa a Milano e sfruttarla al meglio».
Non ci sono modelli da seguire: «Ogni writer ha la sua storia - dice Joys, padovano, graffitaro da 15 anni -. Non si può studiare il mondo di un writer per capire il fenomeno generale. Le esperienze personali dettano lo stile di ognuno che è sempre diverso. Così come diversi sono i riferimenti che ognuno di noi ha. Per me è Maurits Esher, artista olandese dello scorso secolo». Scordatevi lo stereotipo del ragazzo con le braghe larghe e il berrettino in testa: «È una delle tante espressioni dei writer, ma non l’unica», precisa Joys che ha le idee chiare quando gli chiedi una definizione del suo lavoro: «Io mi sento un’artista. La differenza tra me e un pittore è il supporto su cui realizzo il mio disegno: lui usa la tela, io il muro».
Ai più giovani si mischiano anche le vecchie leve: Rendo e Raptuz, 37 e 38 anni, sono due di loro. Fanno i writer da vent’anni, sono stati anche negli Stati Uniti «ma lì - spiegano - il graffito appartiene alle periferie e ai fenomeni di emarginazione.

Noi, al contrario, lavoriamo alla luce del sole e non ci sentiamo affatto degli emarginati». E come dar loro torto: jeans, una maglietta e, per i più esigenti, anche scale e impalcature da muratore. Qui non si scherza, si fa sul serio.

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