Il centrosinistra che puntava tutto sull’euro

Federico Guiglia

Con tutti i problemi che ha, non è il caso di sfruculiare il centrosinistra anche sul programma. Ma quando la lista dei partiti non più «uniti per unire» dovrà presentare la sua proposta di governo agli elettori, difficilmente potrà esibire il proprio storico fiore all’occhiello: l’Europa. Per la prima volta in modo così chiaro, nessuna forza politica dell’Unione può oggi pensare o sperare di raccogliere nuovi consensi con la liturgia europeista. Ma nel caso dell’Ulivo in versione aggiornata e costruzione separata - di qua la Margherita, di là l’Unione -, la rinuncia sarebbe (sarà) particolarmente grave. Intanto perché Romano Prodi, il suo candidato per palazzo Chigi, è stato presidente della Commissione europea negli ultimi e più tempestosi anni, come hanno dimostrato i successivi referendum in Francia e in Olanda, oltre che il flop sul bilancio 2007/2013 da parte del vertice dell’Unione da poco concluso. E poi perché il centrosinistra di Prodi aveva fatto dell’euro e dell’aggancio a quest’Europa dei parametri la sua medaglia al valore all’epoca del governo.
Paradossalmente, la coalizione del Professore non potrà giocare proprio la carta più importante che aveva a disposizione, pena l’incomprensione dei cittadini italiani troppo delusi e molto incavolati con tutto quanto abbia a che fare, anche alla lontana, con la parola Europa; e non sono certo i soli, nel sempre più Vecchio e sordo Continente, a reagire in questo modo arrabbiato assai.
Neppure potrà rivendicare in modo martellante, il centrosinistra, il ruolo più importante fin qui ricoperto dal leader designato nel corso della sua intera carriera politica, ossia la guida della Commissione.
Perché se lo facesse, sarebbe come il voler continuamente ricordare la corresponsabilità politico-istituzionale nell’edificazione di un’Europa che tanto ieri dava speranza e incuriosiva, in fondo, gli elettori-ascoltatori quanto oggi li respinge nel profondo.
Molte cose, certo, hanno contribuito alla sindrome d’amore/odio per l’Unione. Ma certamente l’attuale diffidenza e/o dissidenza sarebbero infinitamente minori se non fossero stati proprio i rappresentanti italiani del centrosinistra a esaltare le virtù salvifiche dell’Unione oltre ogni evidenza e ragionevolezza. E spesso confondendo, per pura polemica di schieramento, l’atteggiamento anti-europeo di pochi avversari con i dubbi europeisti dei molti.
E questo malgrado l’Italia continui ad essere l’unico Paese del Continente non soltanto a non aver prodotto un partito dichiaratamente e radicalmente euro-scettico - come è accaduto e accade in altre parti del Continente - ma pure ad aver contribuito a ogni mediazione europea possibile, ogniqualvolta necessario in passato.
Probabilmente questa dolce, sonnolenta e soprattutto acritica visione d’Europa coltivata a sinistra era solo un surrogato alla cronica mancanza di una certa idea dell’Italia. Poiché in patria non amavano sognare di patria, sfogavano a Bruxelles i loro inespressi sentimenti nazionali, annacquandoli e mai facendoli valere in modo moderno e dignitoso. Dalle quote-latte all’agricoltura, dalla tutela del «made in Italy» alla salvaguardia e valorizzazione «europea» della lingua italiana ancora oggi paghiamo gli errori del passato, e di un passato addirittura precedente a quello, recente, dell’euro.
f.

guiglia@tiscali.it

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