Controcultura

C'era una volta... a Cinecittà. Casaro, l'uomo che dipinge i film

Treviso celebra l'ultimo cartellonista del cinema. Ecco i manifesti che hanno segnato il nostro immaginario: peplum e western, Oscar e pellicole d'autore

C'era una volta... a Cinecittà. Casaro, l'uomo che dipinge i film

Treviso - Parlando di cinema, meglio cominciare dal finale: spiega sempre la storia che si è appena vista. E la storia che stiamo per raccontare, quella di Renato Casaro, uno fra i più celebri cartellonisti cinematografici che l'Italia abbia mai avuto, si conclude, almeno dal punto di vista artistico - il maestro sta benissimo: ha 85 anni e si diverte ancora con i pennelli - con Quentin Tarantino, regista innamorato del cinema italiano di genere, che sta girando il suo C'era una volta a Hollywood, uscito nel 2019. Per la scenografia gli servono dei manifesti di finti B-movies - crime action e spaghetti western - interpretati dall'attore protagonista, Leonardo DiCaprio: film inventati ma credibili, tipo Operazione Dyn-o-mite! o Uccidimi subito Ringo, disse il Gringo. Aveva bisogno di un maestro. E a chi chiede di dipingerli?

A Renato Casaro il cinema è sempre piaciuto, fin da ragazzo, quando - erano i primi anni '50 -, per entrare gratis nelle sale, si mise a creare le grandi sagome degli attori, pezzi unici dipinti a mano, da mettere all'ingresso del Cinema Teatro Garibaldi o del Cinema Esperia, nella sua città, Treviso. Che oggi, per sdebitarsi di tanta gloria ricevuta, gli dedica una grande mostra - titolo icastico: Renato Casaro -, divisa in tre sedi cittadine: «L'ultimo cartellonista del cinema» al Museo della Collezione Salce, nella chiesa di Santa Margherita, «Treviso, Roma, Hollywood» ai Musei civici di Santa Caterina e «Dall'idea al manifesto» al complesso di San Gaetano. Curata da Roberto Festi e Eugenio Manzato, da oggi al 31 dicembre, tra schizzi a matita, bozzetti, foto di scena, prove, varianti (per i diversi mercati, italiano e internazionale: qui ad esempio c'è Mai dire mai, per i cinema tedeschi Sag Niemals Nie, ma Sean Connery è sempre impeccabile in smoking e Walther PP d'ordinanza), e poi locandine, manifesti, a due e a quattro fogli, per le sale cinematografiche o per l'affissione stradale (ecco Sapore di mare, ecco Amadeus con tutti i personaggi racchiusi nella sagoma nera del compositore...), la mostra racconta fantasia, creatività, artigianalità che diventa arte, occhio e capacità di sintesi dell'uomo che dipinse il cinema. «Quando dovevo fare un manifesto, la cosa essenziale, una volta capita la trama, era togliere, togliere, togliere. Quello che restava di solito era l'immagine giusta».

Classe 1935, ma di anni ne dimostra 65, T-shirt, sahariana e scarpe da tennis, Renato Casaro dopo una vita a Roma ha perso l'accento veneto e guadagnato una certa impassibilità romana, anche se nel 1984 si trasferì per un lungo periodo a Monaco di Baviera. «Oggi il manifesto non è più fondamentale - ammette mentre ci accompagna lungo le sedi, le sale e i 300 pezzi della mostra scelti tra una carriera che è lunga 1500 manifesti -. Un tempo invece seguiva il film importante ma dava anche importanza al film».

Casaro, autodidatta puro, ha dato molta importanza a molti film. Nel '53, a 18 anni, è già a Roma, nello studio di Augusto Favalli. Il suo primo manifesto è Criminali contro il mondo, del '55. Studia i maestri italiani della pubblicità e gli illustratori americani come Norman Rockwell, gli Impressionisti e la pittura di Rembrandt, più avanti persino gli iperealisti giapponesi Passano due anni e apre un suo studio privato a Cinecittà («Un'industria che allora dava lavoro a non sai quante persone dai tecnici agli sceneggiatori, dalle comparse ai costumisti, dagli arredatori a noi pittori»). Prima si firma «C. Renè», poi con il suo nome. A Roma vive l'epoca d'oro del cinema: gli anni '60 e '70. Conquista i registi italiani e americani almeno un maestro per lettera dell'alfabeto: Annaud, Bertolucci, Coppola, fino a Tornatore, Verdone e Zeffirelli Lo chiamano Hollywood e le major: Fox, United Artists, MGM, Columbia Lo vogliono i grandi autori come i distributori dei film di cassetta Lui accontenta tutti, arriva a realizzare anche cento manifesti l'anno: «Dallo schizzo iniziale al poster finito ci volevano 4-5 giorni Lavoravo anche su più film contemporaneamente. Agli inizi avevo un collaboratore per il lettering, poi ho sempre fatto da solo. Mai mancato una consegna. Magari quando arrivava il fattorino a ritirare il manifesto non era ancora asciugato del tutto, e mi è capitato di metterlo sul radiatore della macchina, ma non tardavo di un giorno». Li faceva vedendo solo le foto di scena, a volte i trailer, raramente qualche girato «giornaliero», quando andava bene leggendo il soggetto. Ma il risultato soddisfaceva sempre tutti. I registi, che si fidavano ciecamente («Certo, lavorare con Leone e Bertolucci mi creava un po' di apprensione... ma ad esempio il manifesto dell'Ultimo imperatore dicono tutti sia un capolavoro, con il bambino inondato da un fascio di luce...») e i distributori, che un giorno dovevano accontentare il pubblico di cinefili, un altro gli amanti del cinema di genere Eccoli qui, tutti i generi reinventati da Casaro, prima a colpi di pennello e poi, dalla fine degli anni '70, di aerografo, «che dà maggior realismo all'immagine, avvicina ancora di più alla fotografia...»: l'horror (qui c'è Il laccio rosso, con la testa di una donna strangolata «a tutto schermo»), il peplum (a decine, uno più bello dell'altro), il western (fra i tantissimi, il nostro preferito è 7 dollari su rosso), il giallo (c'è il magnifico L'orologiaio di Saint-Paul, tratto da Simenon, con Philippe Noiret visto dietro il vetro del negozio con la scritta dell'insegna a specchio), i film di Franco e Ciccio (il cult movie I 2 sanculotti, dove la cosa migliore del film è il manifesto), la commedia (tantissimi titoli di Sordi), i musicarelli, la trilogia di Rambo. E poi tutti i film della coppia Terence Hill e Bud Spencer («Una volta mi dissero che senza i miei manifesti i loro film non avrebbero avuto così successo»), i capolavori della storia del cinema (come C'era una volta in America: qui ci sono diversi bozzetti, locandine e la versione tedesca con i volti dei quattro protagonisti in oro su sfondo nero) e i suoi personalissimi capolavori: Balla coi lupi («Dicono sia perfetto, scelsi l'immagine di Kevin Costner che da soldato si trasforma in indiano truccandosi il volto coi colori americani bianco e rosso sullo sfondo blu») e soprattutto Nikita («Lei di spalle che gira dietro una parete sporca di sangue, e tu non sai se sta andando via, e dove, con chi... È il lavoro che amo di più»). E poi i nostri personalissimi capolavori. Ne citiamo tre. La riedizione del 1962 per l'Italia di Rapina a mano armata di Kubrick (Casaro si fece scattare delle foto con un mitra in mano mentre fingeva di essere colpito a morte, poi scelse quella a cui ispirarsi per il manifesto), Misery non deve morire (il volto di Kathy Bates, una macchina per scrivere e una baita avvolti nel buio) e Opera di Dario Argento, con gli occhi tenuti aperti da spilli fissati con lo scotch come fossero due palchi di teatro... E il film, infatti, era tutto lì.

L'arte di dipingere il cinema.

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