Roma

Cesare e Alfredo, una vita a pescar anguille nel Tevere

Un libro non basterebbe per raccontare la storia dei fratelli Bergamini, gli ultimi pescatori del Tevere. A noi doveva bastare un pranzo ma al tramonto Cesare, il «portavoce» dei due, è ancora un fiume in piena di parole. Una vita a pescare fin da quando bambino, dopo la scuola, parte dalla Garbatella per Maccarese sulla canna della bicicletta del nonno, barcarolo di professione e pescatore per passione. Quando non è sulla barca a remi, pesca le rane: «Le spellavamo e mi madre faceva i mazzetti da dieci co’ li giunchi. Se vennévano ’na lira l’una in borgata, per il cittadino era ’na cosa prelibata».
È 1947 e Cesare ha 7 anni, suo fratello Alfredo quattro in più. Tempi duri, in cui «nun se dormiva e la sera se guardava la porta di casa: se s’apriva voleva di’ che se magnava». Poi viene il periodo dei pesci: cefali, carpe, di cui i canali erano pieni. «Roma campava cor pesce de fiume. Oggi arriva dalla Tunisia ma allora, quando cor caretto il pesce arrivava da Ostia, era già marcito». Il padre lo compra dai pescatori sul Tevere per venderlo ai mercati. Ma Cesare ha il pallino della pesca: fa amicizia con un vecchio che a fine giornata gli presta la barca, fa comprare ad Alfredo, allora militare a Napoli, la prima rete e inizia a perlustrare il fiume. Il Tevere «appartiene» agli altri pescatori e lui ottiene solo un angolo sotto la diga di Castel Giubileo, dove la corrente è massima e la barca se non legata vola via. «Tu sei matto» gli dicono, ma lui non molla, lì i pesci guizzano e Cesare lo sa. Il primo giorno prendono un quintale di pesci, il secondo i quintali diventano 12. Chiede al padre di trovare il cliente, perché «ho capito il sistema, avemo fatto tombola». Il suo asso nella manica sono proprio le reti: gli altri le hanno vecchie e logore, mentre lui se le cuce da solo e poi gli basta guardare il fiume per capire dove sta il pesce. Nasce il mito dei Bergamini e vengono con le biciclette da ogni parte di Roma per comprare il pesce da loro e venderlo nelle borgate: «A 60-70 lire al chilo per dieci quintali erano soldi e avémo campato bene», ride di gusto Cesare.
Poi un’altra svolta. Perché i fratelli Bergamini in realtà sono quattro e anche il terzo, Alvaro, ha la passione della pesca. «A Cesare, guarda che a Mezzocammino se pescano montagne de ciriole», gli dice. Le anguille, allora, si vendono a 600 lire al chilo. Cesare impara a fare i martavelli, le nasse per pescare le anguille. Con Alfredo caricano la barca su un camion e la portano a Mezzocammino: è sera quando buttano in acqua 5 martavelli e a mezzanotte le reti sono già piene. È il 1967, e in un anno i Bergamini pescano 10mila quintali di anguille. Si trasferiscono in questo tratto del Tevere tra Roma e Fiumicino, fondano una cooperativa con altri pescatori del fiume e nel 1969 mettono su il barcone galleggiante che ancora oggi è la base della loro attività e la loro seconda casa. Da aprile a ottobre, al tramonto, quando le anguille cominciano a muoversi, percorrono il Tevere, buttano i martavelli e la mattina vanno a recuperarli. La pesca continua a essere fruttuosa e Cesare s’inventa anche delle nasse speciali per le anguille piccoline, le «chechette», che vanno agli allevamenti: quasi 9mila quintali l’anno.
Alla fine degli anni Ottanta, però, la fortuna gira di nuovo. Compaiono i depuratori, il cloro e l’acido muriatico bruciano i microrganismi di cui si nutrono i pesci di fondo: anguille, carpe, cavedani. Oggi i due fratelli continuano a fare su e giù per il fiume ma pescano al massimo 20 quintali di anguille al giorno. Le tengono nel loro vivaio fino al sabato, quando arrivano i camion per portarle negli allevamenti del Nord Italia. A detta di Cesare, è stato lui a «inventare» il sistema per allevare anguille e barbi. «Gli ho fatto vedere come si nutrono, in che ambiente vivono, abbiamo persino fatto gli incubatori, poi si sono presi l’idea e se la sono portata al Nord», racconta con più orgoglio che rabbia. Loro, caparbi, restano sul Tevere, di cui conoscono ogni anfratto. Collaborano con l’università di Tor Vergata: misurano le temperature e prendono i pesci da analizzare. D’inverno, quando le anguille vanno a riprodursi nel Mar dei Sargassi, Cesare fa le reti. E poi pescatori, poeti e amici scostano la rete che fa da porta e si siedono al desco di Cesare e Alfredo. È tutto un vociare di racconti e aneddoti su una Roma che non c’è più. Il quartier generale di Cesare ora non è più sull’acqua, dopo una piena l’hanno tirato su. Accanto, però, c’è un barcone dove fino a qualche anno fa le mogli dei due fratelli davano da mangiare a tutto il circondario: l’Anaconda. Ma le mogli tornavano a casa troppo stanche, così i due uomini di casa decidono di chiudere bottega. L’anno scorso anche Alessandro si affaccia alla porta di Cesare. Con la benedizione di Cesare ha riaperto l’Anaconda, dove Cesare fa capolino ogni giorno per bere un goccetto di vino e ricordare i bei tempi. Ha tre figli e sette nipoti, ma nessuno continuerà la tradizione della pesca fiumarola. Finirà con loro, ma tra molti anni. Di andare in pensione Cesare non ne vuole proprio sapere.

E Alfredo lo asseconda.

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