La Cgil condannata per lavoro nero: portinaio senza contratto per 14 anni

L’uomo, che lavorava sette ore al giorno nella sede di Venezia, fu allontanato all’improvviso. Ora la Camera del lavoro dovrà risarcirlo di tutti i contributi

Mimmo Di Marzio

da Milano

Tra i princìpi costitutivi dello statuto della Cgil vige «la tutela, nelle forme e con le procedure più adeguate, del diritto di tutte le lavoratrici e i lavoratori a rapporti corretti e imparziali». Con l’ex portiere Gregorio Picolati, 14 anni a fare il factotum nella guardiola della Cgil di Mestre, tra caldaie da regolare, raccomandate da controfirmare e parcheggi da governare, i dirigenti del sindacato veneziano avranno certamente pensato a un’interpretazione più libera di quell’articolo. O forse che «il diritto a rapporti corretti e imparziali» vale sì per tutti, ma proprio tutti, tranne che per il sindacato stesso. Altrimenti non sarebbe stata condannata, la Cgil di Venezia, per... lavoro nero.
Già, proprio per quell’aborrito reato per cui va giustamente perseguito chicchessia, caporale, padroncino o piccola, media impresa. La condanna è di aver tenuto il povero Gregorio sul posto di lavoro dalle 6.30 alla una e per quasi tre lustri senza un vero contratto, salvo poi dargli il benservito dalla sera al mattino. La paga, è pur vero, non era un granché. Inizialmente 400mila lire al mese, poi divenute 700mila, più seimila per ogni giornata di presenza. Non era granché ma era meglio di niente per un prepensionato con una moglie e due figli, messo alla porta con tutti gli altri operai dalla Vetrocoke di Porto Marghera, presso cui era impiegato.
Eppure Gregorio Pisolati ai princìpi del sindacato ci credeva, come pure al Pci. Altrimenti non avrebbe gelosamente custodito entrambe le tessere per quasi 40 anni. E siccome la ragion di partito in taluni casi viene prima che quella di Stato, mai e poi mai si sarebbe permesso di denunciare i dirigenti rossi. I panni sporchi, pensava, si lavano in casa. Eppoi era sicuro, l’ex operaio diventato portiere, che qualche funzionario, anche solo un caposezione, avrebbe capito il suo dramma, lo avrebbe fatto sedere e ascoltato come si fa tra compagno e compagno. Ci ha provato, invano. A un certo punto ha addirittura pensato che il vero problema fosse il carattere ottuso di certi veneti, e così si è rivolto a Roma, alle stanze polverose, ma così intrise di storia, del Bottegone. Pare che abbia interpellato perfino la segreteria di D’Alema, il líder Maximo.
Niente di niente. Neppure uno straccio di controfferta, chessò, dietro le bistecchiere di qualche Festa dell’Unità. Tradito negli ideali di una vita, offeso nella dignità umana e senza più una lira e poi un euro per pagare il mutuo, Pisolati, soltanto allora, non ci ha più visto e si è finalmente rivolto a quei giudici che, fino a quel momento, dovevano casomai occuparsi soltanto di nemici e sfruttatori. Ora, ahimè, tra quelli c’erano anche i suoi ex compagni.
E dello stesso avviso si è dichiarato il Tribunale del lavoro di Venezia che ha condannato il sindacato a risarcire il Pisolati dei contributi fiscali, previdenziali e assicurativi. Non solo. Il giudice, accertata l’illegittimità del recesso dal contratto di collaborazione, ha anche condannato la Cgil al pagamento delle mensilità da maggio a dicembre 2003 (dal momento in cui è stato licenziato alla scadenza del contratto) e al saldo delle spese processuali.

A nulla è valsa la difesa della Cgil patrocinata dall’avvocato Gennaro Autiero, secondo il quale la prestazione del portiere era da considerarsi solo a titolo di volontariato. Manco fosse un orfanotrofio invece della Camera del lavoro.

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